Proseguendo nella nostra ricostruzione cronologica, è tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta che giungono a definirsi più chiaramente i nuovi indirizzi secondo cui si svilupperanno negli anni a venire nuove modalità di relazione tra esigenze commerciali e soluzioni progettuali. Prende avvio in quegli anni l’elaborazione di strategie aziendali che utilizzano in maniera sistemica e non più episodica, gli spazi commerciali, inserendoli opportunamente in una pianificazione complessiva dell’identità di marca. I negozi, al di là delle loro caratteristiche specifiche, di natura spaziale e percettiva, assumono un senso in relazione al ruolo che viene loro assegnato dalla politica di comunicazione della marca. Conseguentemente l’elaborazione progettuale cessa di essere una esclusiva delle tradizionali discipline architettoniche, per aprirsi ad un approccio multidisciplinare.
Due esempi possono servirci come utili riferimenti di questa importante fase di cambiamento: il caso del marchio Esprit e gli spazi di Rei Kawakubo per Commes des Garçon.
Negli anni Ottanta, alcune aziende iniziano ad utilizzare alcune soluzioni progettuali come elemento di richiamo legato all’eccezionale qualità dell’architettura allestitiva ottenuta. Questa strategia è alla base della corrente diversificazione dei format commerciali in una struttura apicale che vede al vertice i flagship store, cioè proprio quegli spazi che rappresentano l’esito attuale dell’approccio precedentemente indicato.
Oggi il principio di una diversificazione degli spazi di vendita più rilevanti, assegnati a differenti progettisti, è diffusamente adottato dalle marche del sistema della moda. Tutti i principali fashion brand coinvolgono i più accreditati progettisti internazionali, in modo da ottenere una indiscutibile qualità e visibilità per i loro più importanti spazi di vendita. Questa modalità di espressione della marca trova origine proprio in strategie elaborate nel corso degli anni Ottanta. Più precisamente fu Dough Tompkins, manager di Esprit, che per la prima volta si rivolse ai principali designer del panorama internazionale attivi in quegli anni, affinché utilizzassero gli show room loro assegnati come un autonomo esercizio della loro eccezionale espressione progettuale. In tal modo, personaggi come Ettore Sottsass, Shiro Kuramata, Antonio Citterio, Norman Foster, danno luogo ad autonome interpretazioni dell’identità aziendale, ma nello stesso tempo è Esprit stessa che modifica ed evolve la propria immagine affiancandola alla più avanzata ricerca progettuale di quegli anni.
Ingaggiando una serie di designer dalle caratteristiche tanto diverse, Esprit riuscì ad evitare qualunque omologazione formale tra i suoi diversi spazi. Nacquero così alcuni tra gli episodi allestitivi più importanti di quegli anni, come i negozi di Hong Kong e Singapore, entrambi di Shiro Kuramata, quelli di Ettore Sottsass e associati in Germania e Australia, a cui si aggiunsero quelli di Aldo Cibic, Antonio Citterio, Norman Foster e Shigeru Uchida in giro per il mondo. La logica che impone un rinnovamento ciclico dei luoghi di vendita, non si è arrestata neppure dinanzi alla qualità di queste architetture che oggi risultano, per la maggior parte, demolite per fare spazio al nuovo. Ciò che resta è un approccio che ha lasciato il segno e che trova comune applicazione nei giorni nostri attraverso i flagship store.
Un’altra importante trasformazione, che parte negli anni Ottanta, è quella relativa al rapporto esistente tra spazio e prodotto.
Storicamente il principale attrattore per spingere i consumatori all’acquisto è stato rappresentato dal prodotto.
Proprio per questo suo ruolo, la merce viene posta al centro di un meccanismo allestitivo di natura spettacolare che ruota intorno alla vetrina su strada.
Con la comparsa del brand l’attrattiva si sposta, però, dalle qualità del singolo prodotto ad un sistema valoriale che si basa prevalentemente su meccanismi di riconoscibilità della marca.
Il consumatore è di fatto attratto non più dalla specificità del singolo prodotto, quanto dal suo appartenere ad un mondo complesso e coerente, in cui esso va a situarsi e che ne esaurisce per buona parte le aspettative.
Coerentemente a questa evoluzione sarà il negozio, con la sua capacità di comunicare complessivamente l’identità della marca, a scalzare la centralità data precedentemente al prodotto.
Il primo brand a sviluppare una strategia mirata al ridimensionamento della attrattività del prodotto è stato, a partire dai primi anni Ottanta, Comme des Garçons.
Gli allestimenti di Rei Kavakubo, realizzati in collaborazione con importanti designer per i suoi negozi Comme des Garçons, danno continuità all’essenzialità ed alla forza che si ritrovano nei suoi abiti, riuscendo coerentemente a completare una sofisticata comunicazione di marca. Questa coerenza di contenuti si ritrova già nel primo negozio americano di Comme des Garçons, progettato nel 1983 da Rei Kavakubo insieme a Takao Kawasaki. Superando radicalmente l’idea della centralità del prodotto, caratteristica sino ad allora dei negozi di abbigliamento, le vetrine non esponevano vestiti. Anche all’interno gli abiti erano presenti in modo discreto. Seguendo lo stesso principio in maniera ancora più estrema, nello spazio vendita di Tokyo ubicato nel palazzo Axis, non era esposto alcun capo di vestiario. I clienti dovevano richiedere direttamente al personale di vendita di mostrare loro gli articoli che venivano, all’occorrenza, tirati fuori uno alla volta da scaffalature nascoste da riquadri decorativi in vetro lavorato. Più recentemente la totale assenza di qualunque elemento di riconoscibilità della marca nello spazio prospiciente la strada si ritrova nel negozio di New York progettato dallo studio inglese Future System.
Qui addirittura il processo di mimetizzazione del brand è spinto al punto che anche lo spazio di ingresso, rappresentato da una passerella in titanio martellinato, è completamente cieco e non offre alcuna visibilità al prodotto.
Questa perdita di intensità comunicativa del prodotto, prossima all’assenza, è certamente coerente con un’idea selettiva che la cultura minimalista giapponese identifica con l’idea del lusso, ma vi è anche dell’altro. Viene totalmente superata l’idea di negozio-vetrina, in cui il consumatore è spinto all’acquisto dalla capacità di seduzione esercitata, in maniera esclusiva, dal prodotto che nel negozio trova esclusivamente una adeguata ed indispensabile cornice di presentazione. Si afferma un atteggiamento che rappresenta la raggiunta prevalenza della espressività della marca sulla autonomia del prodotto.
Nel caso degli spazi di Rei Kawakubo si introduce il principio del negozio-filtro messo in atto per distogliere chi non è un consueto cliente o un ospite provvisto delle necessarie referenze. Lo show room assume il ruolo di uno strumento di comunicazione che parla solo a coloro che, già edotti, si riconoscono nei valori della marca che garantiscono della qualità dei singoli prodotti. Attraverso Rei Kawakubo l’architettura ed il design sono diventati, esplicitamente, parte del lavoro degli stilisti, un indispensabile completamento comunicativo della loro attività. L’aspettativa e la curiosità, prima riposte direttamente sulla merce, si spostano sul luogo di vendita. Questo principio resterà una costante in tutti gli spazi di vendita di Comme des Garçon, come quello creato per il marchio di camiceria Shirt, aperto e New York nel 1990, una stretta galleria che appariva praticamente priva di qualunque visibilità esterna.
Più recentemente nel flagship di Tokyo, Ayoama gli abiti sono sottratti alla vista da un grigliato celeste apposto sulle vetrine, mentre in quello di Parigi, lo stesso effetto occlusivo della vetrina, è ottenuto mediante veri e propri filtri laccati di rosso scarlatto.
Ancora più estremo è il trattamento riservato alle vetrine nel negozio realizzato nel 2003 a Kyoto. L’affaccio su strada dello spazio presenta, come lontana astrazione dell’idea di vetrina, un lucido piano nero, ottenuto mediante pannelli di acciaio smaltato che riflettono l’immagine dei passanti, oscurando totalmente dall’esterno la visibilità di ciò che è contenuto all’interno. Nel rarefatto spazio di vendita l’atmosfera è quella di una sofisticata galleria, in cui pochi abiti si sostituiscono alle opere d’arte, mentre la maggior parte dei prodotti sono stoccati in contenitori chiusi che li rendono di fatto invisibili.
1. Commercio e dimensione urbana
2. Gli spazi di vendita della moda e il design: la vetrina e il magazzino moderno
3. Riconoscibilità della marca e spazi di vendita: le origini
4. Gli anni Sessanta: Biba, Mary Quant e la Swinging London
5. Gli anni Settanta e Ottanta: verso un nuovo atteggiamento progettuale
6. Il punto vendita come esperienza della marca
9. Espressività della marca e diversificazioni commerciali: i multibrand
10. Il Pop-Up Retail: una classificazione degli spazi commerciali temporanei
11. Principali esemplificazioni di pop up retail
13. Arte e consumo negli spazi di vendita: lo spazio della vetrina e la mostra surrealista del 1938
14. L'apporto della Pop Art: Keith Haring e il Pop Shop
15. Esemplificazioni recenti: Prada Marfa
16. Una nuova modalità di rappresentazione della marca: i concept book