Fin dai tempi delle avanguardie storiche, l’arte moderna si è sviluppata attraverso un processo di trasfigurazione di comportamenti e materiali associabili alla società di massa. Conseguentemente durante il corso del XX secolo, l’evoluzione dell’espressione artistica è contrassegnata, seppur ciclicamente, da una dialettica complessa, variegata e a volte polemica con gli oggetti industriali e in generale con il fenomeno del consumo. Direttamente molti artisti manifestano il loro interesse rappresentando le merci attraverso l’uso delle tecniche più tradizionali, come la scultura o la pittura, o inserendole variamente nell’opera d’arte stessa come materiale espressivo.
Se è evidente che un filo conduttore collega ad esempio il gesto provocatorio di Marcel Duchamp, che nel 1917 invia alla Society of Independent Artists di New York un orinatoio firmato e intitolato “Fountain“, al successivo celebre dipinto di Andy Warhol del 1962 raffigurante una lattina della zuppa Campbell’s, alle compressioni di rifiuti di César o alle accumulazioni di Arman negli anni Sessanta, bisogna necessariamente sottolineare che la riflessione sul tema dell’arte e del consumo si esprime attraverso una moltitudine di varianti.
Per tornare alla ricostruzione, almeno per tratti principali, del percorso di integrazione tra arte e consumo avvenuto a partire dalla prima metà del XIX sec. attraverso lo spazio del negozio, un primo importante episodio è legato ad una esposizione surrealista svoltasi a Parigi nel 1938, all’interno della Galleria Georges Wildenstein.
I Surrealisti parigini, che vantano tra l’altro una fama di flâneurs metropolitani, sono particolarmente affascinati da un particolare aspetto dell’esposizione della merce. Quello che li colpisce non è semplicemente la vetrina, quanto le esili figure femminili che le popolano: i manichini. Essi riconoscono, in questo simulacro commerciale della femminilità, il potere seduttivo della scenografia commerciale e la straordinaria capacità della vetrina di integrare e confondere lo spazio interno con quello esterno.
Una delle principali esposizioni surrealiste dell’epoca, che apre nel febbraio del 1938 nella galleria parigina Georges Wildenstein, evidenzia la passione quasi ossessiva nei confronti proprio dei manichini, o come li descrive lo stesso Salvador Dalí “etres-objects“, dotati di un’anima, come fossero veri esseri umani. L’esposizione ospita nel cortile della galleria un taxi pieno di manichini, e nella sala principale fotografie, objects d’art e oggetti d’uso quotidiano che rovesciano i tipici canoni espositivi delle gallerie d’arte. Inoltre, in un lungo corridoio è esposta l’opera “The Most Beautiful Street of Paris“, che presenta sedici manichini allineati che ben presto diventano la maggiore attrazione dell’esposizione.
Ogni manichino viene trasformato da un artista in una “chimera surrealista“, che mira a liberare la figura femminile dal suo ruolo di venditrice per ricollocarla in un contesto fittizio e ideale, quello delle più belle strade parigine. Tra gli artisti spiccano Salvador Dalí, Marcel Jean, Murice Henry, Paul Eluard, Sonia Mossé, Oscar Dominguez, Espinoza e André Masson. Sul muro alle spalle di ogni manichino, gli autori applicano un segnale stradale, che riprende nomi fittizi o reali, e fotografie, cartoline e disegni che ritraggono la città o annunciano mostre e progetti surrealisti. Gli artisti sono attratti dal desiderio di poter ricollocare le sensuali figure femminili in un contesto onirico e, allo stesso tempo, dalla possibilità di ammirarle senza restrizioni attraverso le numerose vetrine che le tengono in gabbia.
Nell’occasione anche la galleria d’arte subisce un radicale cambiamento poiché si trasforma, essa stessa, in una grande vetrina, che mette in mostra dei corpi femminili artificiali riconoscendoli sia come opere d’arte che come prodotti commerciali. L’intero spazio diventa duplicemente ambivalente perché i visitatori dividono la scena con i manichini, in un ambiente che si trasforma rapidamente da galleria in vetrina e ancora in strada cittadina, in una forma di continuità, in cui il carattere distintivo ed autonomo dei singoli elementi si annulla. Questo effetto è enfatizzato dall’illuminazione progettata appositamente da Man Ray, che prevede l’uso esclusivo di torce, che vengono consegnate ad ogni visitatore all’entrata, creando un effetto particolarmente suggestivo all’interno dei vari spazi. La galleria, i suoi abitanti, e gli stessi visitatori sono immersi nel buio e appaiono per pochi secondi sotto il passaggio del fascio di luce delle torce, andando a creare un’esperienza ancora più surreale.
I manichini surrealisti hanno un impatto rilevante non solo sulla comunità artistica dell’epoca. Richiamano, infatti, anche l’attenzione di numerosi fotografi che immortalano le sedici “signorine” in diversi ambienti, rafforzando ancora di più il desiderio degli artisti di liberarle dalla gabbia della vetrina. Raoul Ubac, ad esempio, le immortala in una specie di parata, mentre Man Ray fotografa il manichino di Salvador Dalí in una scena interna surrealista.
Ma, a partire da questa esposizione, la vetrina rappresenterà uno scenario privilegiato per installazioni volte a sviluppare un legame tra espressività artistica e necessità commerciali.
Gene More, vetrinista presso Tiffany negli anni ‘50, contribuì a trasformare la vetrina in una piccola esperienza artistica.
Ma lo stesso Andy Wharol, ebbe occasione di sperimentare la sua espressività, attraverso lo spazio della vetrina.
Questo episodio inaugura una modalità di utilizzo di un supporto reale, il manichino, in una forma che decontestualizzando il soggetto dal suo ambito naturale, fa della realtà stessa un materiale fantastico. Questa attitudine, originata proprio dall’approccio surrealista, sarà poi adottata molto spesso nella scenografia commerciale. Si pensi, come puro riferimento esemplificativo, all’interno del negozio di Prada a Soho, in cui i manichini sono rinchiusi in gabbie metalliche sospese dal soffitto o lasciati liberi nelle ampie scalinate della famosa “vallata” di legno che caratterizza lo spazio di progettato da Khoolhas.
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