I problemi comunicativi nelle situazioni di rischio sono legati alla dicotomia in base alla quale un fenomeno può essere classificato come “rischio” o come “pericolo” (vedi lezione n° 16): in molte situazioni le persone su cui grava il danno potenziale percepiscono l’evento come pericolo, mentre i decision makers come rischio.
In effetti i rischi dei decisori sono ben diversi da coloro su cui grava l’evento, quali: perdere una condizione di maggioranza politica, essere sottoposti a procedimenti giudiziari, etc.
La logica tradizionale, che vede la fase della comunicazione esclusivamente come quella in cui la decisione viene comunicata agli interessati, deve essere abbandonata a favore di una nuova logica, che considera la comunicazione come un fenomeno che interessa trasversalmente tutto il processo di gestione del rischio.
La stessa fase decisoria si fonda su presupposti comunicativi costruiti in precedenza, su un pregresso rapporto con la base da cui deriva il consenso politico, sulla struttura della comunicazione interna e con i tecnici che hanno provveduto a stimare il rischio.
Oltre ad una asimmetria strutturale degli attori coinvolti (vedi slide n°1), esiste anche un’asimmetria linguistica e semantica. Gli esperti, infatti, chiamati ad accertare e valutare i rischi definiscono questi ultimi in termini di procedure e linguaggi scientifici, mentre gli individui sottoposti al rischio e il pubblico in generale, sono preoccupati della sua dimensione qualitativa, piuttosto che delle probabilità oggettive dell’evento dannoso.
Una buona comunicazione del rischio, deve quindi facilitare lo scambio di informazioni tra queste due sfere, pubblico ed esperti, al fine di evitare una deriva comunicativa.
Una delle più serie manifestazioni dello scarto tra la visione degli esperti e quella del pubblico, è “l’information vacuum“, traducibile con “vuoto informativo“.
Esso si genera quando si verifica un’interruzione o una perturbazione dei circuiti comunicativi tra le due sfere, ad esempio, quando gli esperti non comunicano regolarmente i risultati delle loro ricerche al pubblico, le fughe di notizie possono mescolarsi con le paure della gente e creare disinformazione e vuoti, tali da provocare percezione selettiva (le persone tendono a recepire solo i messaggi che confermano convinzioni già preesistenti), panico e stati di entropia informativa.
Un’efficace collaborazione con i media è una componente fondamentale di qualsiasi strategia comunicativa, dato che è dai media che il pubblico ottiene la maggior parte delle informazioni concernenti le situazioni di pericolo.
Le strategie istituzionali di comunicazione, quindi, devono tener conto delle esigenze, delle tendenze, delle motivazioni, dei tempi dei mezzi di comunicazione di massa e nondimeno del fatto che l’attività dei media è a tutti gli effetti un business inserito in un mercato concorrenziale, dove i programmi d’informazione si trovano a competere con l’intero sistema dell’intrattenimento.
Si afferma così la logica dell’infotainment (information + entratainment): le notizie devono essere sempre più attraenti sia in termini di forma sia di contenuto. La spietata concorrenza fa sì che non è l’importanza dell’evento o del pericolo a determinare la sua spendibilità giornalistica ma lo sono la sua spettacolarità, il suo impatto visivo, le potenzialità di coinvolgimento emozionale. Inoltre, giornalisti non adeguatamente preparati o motivati tendono a soffermarsi su correlati aspetti politici e di costume, chiamando in causa “l’uomo della strada”, che non farà altro che alimentare incertezze, qualunquismo e vuoto informativo.
Tali condizioni compromettono la possibilità di creare quel clima di fiducia e di dialogo indispensabile in situazioni di rischio. Per l’inevitabile sinergia di elementi di varia natura, la copertura informativa in situazioni di rischio, inoltre, tende a creare una dimensione alternativa, una “realtà mediatica” lontana da quella “empirica”.
In molti casi l’effettiva esistenza fenomenica di un rischio è del tutto marginale o inifluente; ciò che conta è la sua esistenza mediatica. Semplici episodi di disinformazione o di errata comunicazione del rischio possono creare movimenti di massa ed agitazioni di folla: in questo consiste il rischio comunicativo.
Così un pericolo inesistente può creare danni tutt’altro che virtuali; uno dei primi a dimostrarlo è stato Orson Welles il 30 ottobre 1938 con il suo esperimento/burla, in cui mise in scena alla radio uno sceneggiato – “La guerra dei mondi” – consistente in una finta cronaca di un’invasione aliena, scatenando il panico in tutta la nazione.
Orson Welles. Fonte: Wikimedia
Una comunicazione efficace deve muovere dalla consapevolezza della diversità ed unicità degli individui, questo significa costruire non il messaggio efficace ma un set di messaggi capaci di arrivare a molti livelli. Le difficoltà si amplificano in realtà sociali multietniche, oggi assai frequenti.
Tra le più controverse criticità della costruzione di messaggi in situazioni di rischio, vi è la valutazione dell’efficacia delle comparazioni di rischio, in cui si paragonano gli effetti di un rischio “familiare” a quelli di uno “non familiare”. Tali tecniche, infatti, non tengono conto delle diverse dinamiche di costruzione di percezione del rischio (vedi lezione n°16).
Per esempio, un rischio familiare, come quello relativo al cancro provocato dal fumo di sigaretta, è spesso connesso all’illusione da parte del fumatore del controllo, o in ogni caso, della consapevolezza del suo ruolo attivo nella creazione dell’evento dannoso. Più i rischi non sono familiari, e quindi il pericolo diviene “invisibile” e “misterioso”, più crescono l’insicurezza e il timore.
Così, pure i rischi men-made (chimico o nucleare) vengono diversamente percepiti rispetto a quelli naturali (come quello vulcanico o sismico).
Alcune ricerche (Covello, 1992), hanno dimostrato come nelle situazioni di bassa fiducia ed elevata preoccupazione la credibilità dell’emittente del messaggio è valutata dal ricevente attraverso quattro misure fondamentali:
Circa l’80% degli stimoli significativi per la reazione del ricevente e la valutazione della credibilità si trasmettono attraverso canali metaverbali.
Per costruire una buona risk communication bisogna lavorare sui seguenti aspetti:
L’aspetto più critico è quello relativo alla struttura e al lessico del messaggio. La problematica richiama l’asimmetria linguistica tra gli esperti e il pubblico; mentre la prospettiva scientifica è tipo continuo e implica un atteggiamento probabilistico quella comune è discreta, dicotomica, cioè la percezione del rischio si struttura in maniera binaria (si o no).
Esempio: se gli esperti dichiarano “dall’analisi dei campioni sono stati rilevati livelli bassi di contaminazione al di sotto della soglia di rischio“, l’attenzione di molti cittadini sarà catturata dalla presenza di una contaminazione piuttosto che dalla rassicurazione circa i livelli normali.
Questa condizione genera panico ed ansia, per evitare ciò diviene opportuna una distorsione della realtà: “gli esperti hanno unanimemente ritenuto che non esiste alcun tipo di contaminazione, dunque non esiste nessun tipo di pericolo“. In realtà più che di una alterazione della realtà, si tratterebbe di una procedura di traduzione da un linguaggio, “quello scientifico”, ad un altro, “quello comune”.
Il successo comunicativo dipende solo in minima parte dalla “qualità” del messaggio, ma in massima parte invece, da una corretta attuazione di una precedente, capillare ed efficace attività di divulgazione della “cultura della sicurezza“.
Le criticità fondamentali da esaminare e superare per progettare un’efficace comunicazione del rischio sono:
La nozione di “comunicazione del rischio” si riferisce, quindi, ad un processo sociale attraverso il quale le persone acquisiscono conoscenza dei pericoli, e in base a ciò, organizzano il loro comportamento.
Le popolazioni interessate non devono semplicemente “essere al sicuro“, ma devono anche “sentirsi al sicuro“; comunicare il rischio è qualcosa di molto più complesso che diffondere in maniera chiara dati e indicare rimedi, si tratta piuttosto di creare un clima di fiducia.
1. Introduzione alla Sociologia
2. La cultura
7. Devianza e controllo sociale
9. Disuguaglianza, stratificazione e classi sociali
10. La famiglia
11. La religione
13. Comportamento collettivo e movimenti sociali
U. Pagano, La comunicazione in situazioni di rischio, in R. Sibilio “Analisi sociologica e rischi ambientali”, Torino, Giappichelli, 2003.
Per approfondimenti:
R. Lundgren, Risk Comunication. A Handbook for Communicating Environmental, Safety and Health Risks, Columbus, Battelle Press, 1994.
Marinelli, La costruzione sociale del rischio. Modelli e paradigmi interpretativi nelle scienze sociali, Angeli, Milano, 1993.
V.T. Covello, Effective Risk Communication, New York, Plenum Press, 1989.