Sommario:
In forza del principio di legalità la norma attribuisce il potere e stabilisce la finalità per cui il potere stesso deve essere esercitato. In alcuni casi, la p.a. è chiamata semplicemente all’accertamento del fatto, dovendo verificare la corrispondenza tra la fattispecie concreta e quella astratta: la decisione che ne scaturisce non è il frutto di una scelta, siccome l’assetto di interessi è interamente prefigurato dalla norma. In questi casi si parla di poteri vincolati.
Quando invece la p.a. esercita poteri discrezionali, le scelte che le si prospettano sono tutte astrattamente conformi al dettato normativo, ma a seconda delle caratteristiche della situazione concreta su cui si incide, è opportuno individuare quella alternativa che consente il migliore soddisfacimento dell’interesse pubblico con il minor sacrificio degli altri interessi coinvolti (c.d. principio del minimo mezzo).
La norma attributiva del potere può altresì individuare degli interessi secondari: benché l’esercizio del potere sia diretto al soddisfacimento dell’interessa primario, tali interessi secondari devono essere presi in considerazione e sacrificati nella minore misura possibile. La discrezionalità presuppone la comparazione tra interessi secondari sul metro di un interesse primario.
La giurisprudenza ha di recente ben chiarito le peculiarità del potere discrezionale in una pronuncia del Tar Puglia, Lecce, sez. I, 5 agosto 2009, n. 1990, avente ad oggetto il ricorso proposto avverso il provvedimento con cui il Sindaco aveva subordinato il rilascio della concessione edilizia richiesta per effettuare una variante ad opere già precedentemente autorizzate all’acquisizione del previo parere della Sovrintendenza preposta alla tutela del vincolo apposto dal Ministero sull’area di proprietà del ricorrente. Nella specie, il Collegio giudicante ha ritenuto fondata l’impugnativa, sull’assunto che l’amministrazione avesse imposto al privato un aggravio procedimentale non necessario per il corretto espletamento dell’attività valutativa, in considerazione della modesta entità dell’intervento da realizzare.
Si legge infatti nella pronuncia che “la disciplina vincolistica dei beni di proprietà privata [...] costituisce uno dei settori in cui si apprezza maggiormente il significato della c.d. ponderazione comparativa di interessi.
La ponderazione comparativa di interessi esprime l’essenza dell’azione dei pubblici poteri e rappresenta l’ubi consistam di una nozione portante in diritto amministrativo, quale è quella di discrezionalità amministrativa pura.
La scelta finale della p. a, pur sempre teleologicamente orientata, ossia volta a perseguire il soddisfacimento dell’interesse pubblico primario, deve manifestarsi con minor sacrificio per il privato perché ciò è conforme al canone di ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Un canone che è stato disatteso nella fattispecie concreta, nel cui ambito la p.a. locale ha ritenuto doveroso subordinare il parere favorevole al rilascio di un assenso edilizio alla preventiva acquisizione di un non necessario apporto consultivo favorevole da parte della Soprintendenza Archeologica.
Un provvedimento di tal genere si traduce, tuttavia, in un illegittimo aggravio procedimentale perché, nell’esigere un ulteriore apporto consultivo, omette di considerare la reale portata degli interventi edilizi da assentire a titolo di variante in corso d’opera“.
Alla luce delle considerazioni svolte il giudice conclude che “la determinazione di concedere l’assenso edilizio a condizione che sia acquisito il previo parere favorevole della soprintendenza archeologica è dunque illegittima perché provoca una battuta di arresto del procedimento concessorio non dettata dalla esigenza di tutelare concreti e apprezzabili interessi di settore“.
L’attività vincolata si caratterizza per ciò, che il rilascio dell’atto da cui promana un certo effetto è subordinato semplicemente all’accertamento dei presupposti e dei requisiti cui la legge subordina l’esercizio del potere, senza che sia lasciato alcun margine di scelta all’autorità che provvede.
In considerazione di ciò, è sorta la questione se le manifestazioni vincolate del potere amministrativo siano fronteggiate da diritti soggettivi piuttosto che da interessi legittimi: ciò perché, nel caso in cui ricorrano i presupposti ed i requisiti di legge, la produzione dell’effetto dovrebbe seguire in modo certo, in quanto l’esercizio, pur necessario, del potere avrebbe una dimensione puramente formale (realizzazione di un assetto di interessi predeterminato, senza alcuna valutazione comparativa da parte della p.a.). E ciò con tutto quanto consegue in punto di determinazione del giudice dotato di giurisdizione.
La questione si è concretamente posta con riferimento all’ammissione agli esami di abilitazione per la professione di psicologo.
Il provvedimento di ammissione è di carattere vincolato poiché la sua adozione discende da un mero accertamento dei presupposti di fatto, nella specie il possesso di determinati titoli da parte dei richiedenti (vedi l’art. 33 l. 56 del 1989).
Cosa accade dunque nel caso in cui l’amministrazione competente ometta di valutare alcuni dei titoli richiesti per l’ammissione, rigettando la relativa domanda?. L’aspirante candidato è titolare di un diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del g.o., ovvero di un interesse legittimo, con devoluzione della controversia al g.a.?.
Sulla questione si è profilato un contrasto giurisprudenziale tra Consiglio di Stato e Cassazione.
Il caso deciso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 5 luglio 1999, n. 18), riguardava Tizia, che si era vista respingere la domanda di ammissione in considerazione della mancanza del requisito del biennio di attività professionale, di cui all’art. 33, comma 1, lett. b, della legge 18 febbraio 1989, n. 56. Tizia impugnava con successo innanzi al TAR il provvedimento, deducendo di essere viceversa in possesso dei titoli richiesti per l’ammissione all’esame di abilitazione. Il Ministero di Grazia e Giustizia proponeva appello, non condividendo le conclusioni del giudice di primo grado. La IV Sez. del Consiglio di Stato deferiva la questione all’Adunanza Plenaria, affinché fosse preliminarmente risolta la questione di giurisdizione rispetto alla quale si registravano pronunce discordanti del g.a. (Cons. Stato, Sez. IV, 12 novembre 1996, n. 1215, nel senso della sussistenza della giurisdizione amministrativa) e del g.o. (Cass., S.U., 1 luglio 1997, n. 5890, nel senso della sussistenza della giurisdizione ordinaria).
La Plenaria ha quindi osservato che “la posizione di interesse legittimo si collega all’esercizio di una potestà amministrativa rivolta, secondo il suo modello legale, alla cura diretta ed immediata di un interesse della collettività; il diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione trova, invece, fondamento in norme che, nella prospettiva della regolazione di interessi sostanziali contrapposti, aventi di regola natura patrimoniale, pongono a carico dall’amministrazione obblighi a garanzia diretta ed immediata di un interesse individuale. Donde il principio che, la distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi va fatta con riferimento alla finalità perseguita dalla norma alla quale l’atto si collega (Cons. Stato, Ad.plen., 26 ottobre 1979, n.25; e, di recente, Cons. Stato, Sez.V, 20 marzo 1999, n.284; Cons. giust. reg. sic. 18 novembre 1998, n.670; Cons. Stato, Sez.VI, 18 marzo 1998, n.312; Sez.IV, 10 marzo 1998, n.394), giacché quando risulti, attraverso i consueti processi interpretativi, che l’ordinamento abbia inteso tutelare l’interesse pubblico, alle contrapposte posizioni sostanziali dei privati non può che essere riconosciuta una protezione indiretta, che, da un lato, passa necessariamente attraverso la potestà provvedimentale dell’amministrazione e, dall’altro, si traduce nella possibilità di promuovere, davanti al giudice amministrativo, il controllo sulla legittimità dell’atto.
Non sono infrequenti situazioni in cui la norma, pur avendo di mira, in via diretta ed immediata, finalità di interesse pubblico, definisce in modo puntuale i pressupposti e il contenuto dell’azione amministrativa. Tuttavia, anche in tal caso l’attività con la quale l’organo competente effettua, in modo unilaterale, il raffronto fra la fattispecie concreta e il suo modello legale è espressione, in quanto funzionale alla cura di un interesse della collettività, di un potere autoritativo ed esclusivo dell’amministrazione, con la conseguenza che l’atto soggiace al regime proprio del provvedimento amministrativo (presunzione di legittimità, inoppugnabilità dopo il decorso del termine di decadenza, soggezione alla potestà di autotutela) e la posizione di chi aspira a ricevere un’utilità sostanziale dal corretto esercizio del potere assume la configurazione dell’interesse legittimo“.
La pronuncia delle S.U. della Cassazione (18 marzo 2004, n. 5502) ha riguardato una vicenda simile. Caia aveva chiesto al Tribunale, prima, ed alla Corte di Appello, poi, che fosse dichiarato illegittimo il provvedimento di rigetto della domanda di ammissione alla sessione speciale di esame di Stato per titoli per l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo: in entrambi i gradi di giudizio, i giudici aditi avevano dichiarato la carenza di giurisdizione. Identica pronuncia veniva resa dal TAR competente per territorio al quale Caia aveva riproposto la domanda. Essendosi evidenziato un conflitto negativo di giurisdizione (entrambi i giudici dichiaravano di essere sprovvisti del potere di decidere la controversia), Caia ricorreva alle Sezioni Unite della Cassazione, affinché fosse chiarita la controversa questione in punto di riparto. La Cassazione ha quindi ritenuto che “nel caso di rigetto, da parte della commissione esaminatrice, della domanda di ammissione alla sessione speciale dell’esame di Stato per titoli per l’iscrizione all’albo degli psicologi prevista dall’art. 33 della legge 18.2.1989 n. 56, la tutela giurisdizionale delle ragioni del soggetto non ammesso spetta al giudice ordinario, essendo l’indicata tutela attinente a posizioni di diritto soggettivo dell’interessato, non essendo configurabile alcuna discrezionalità dell’amministrazione in ordine all’accertamento dei requisiti e delle condizioni di ammissione al descritto concorso“. Non avrebbe quindi alcun rilievo la circostanza che la norma sia posta a tutela di interessi di dimensione pubblicistica ovvero privatistica.
Recentemente il Consiglio di Stato sembra essersi allineato, con specifico riferimento alla questione dell’esame di abilitazione alla professione di psicologo, alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (confermata da Cass., 27 giugno 2006, n. 14760). Nella sentenza Cons. Stato., Sez. IV, 4 febbraio 2008, n. 291 (che decideva su un caso in tutto e per tutto analogo a quelli finora esemplificati), il Collegio ha affermato che “benché sulla questione si fosse formato un orientamento della giurisprudenza amministrativa sostanzialmente favorevole a far rientrare nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia de qua [...], orientamento che peraltro aveva trovato autorevole conferma nella decisione dell’Adunanza plenaria 5 luglio 1999, n. 18 (che, su rimessione della questione da parte della IV Sezione del Consiglio di Stato, aveva giustificato la sussistenza della giurisdizione amministrativa in ragione della prevalenza dei profili di interesse pubblico a tutela di interessi della collettività, rispetto ai quali la tutela offerta dall’ordinamento alla pretesa del privato ad esercitare la professione doveva considerarsi mediata e riflessa, così anche C.G.A., n. 638 del 2001 ed ancora decisioni n. 8212 e 8213 del 2003 della IV Sezione del Consiglio di Stato), successivamente la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha in più occasioni ribadito il proprio orientamento contrario alla giurisdizione in materia del giudice amministrativo, anche dopo la citata decisione dell’Adunanza plenaria [...], affermando che la tutela giurisdizionale delle ragioni di colui che chieda l’ammissione alla sessione speciale dell’esame di Stato per titoli per l’iscrizione all’albo degli psicologi spetta, anche in via d’urgenza, al giudice ordinario, essendo l’indicata tutela attinente a posizioni di diritto soggettivo dell’interessato, non essendo configurabile alcuna discrezionalità dell’amministrazione in ordine all’accertamento dei requisiti e delle condizioni di ammissione al descritto concorso [...]…
… Tale orientamento, già fatto proprio da talune decisioni di questa IV Sezione (n. 978, 989 e 2655 del 2001) e della VI sez. (n. 7596 del 2003), è stato poi ribadito nelle più recenti decisioni 22 giugno 2004, n. 4469, 30 giugno 2005, n. 3649 e 30 gennaio 2006, n. 325, pure di questa Sezione.
Pertanto deve dichiararsi che non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nella controversia in esame: a ciò consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata“.
È comunque persistente il contrasto circa il riparto di giurisdizione in relazione a diversi tipi di controversie, comunque attinenti a vicende nelle quali la p.a. non abbia speso poteri discrezionali.
Ad esempio in materia di istruzione pubblica, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 24 maggio 2007, n. 8) ha ritenuto che “la natura vincolata dell’attività demandata all’amministrazione non comporta in modo automatico la qualificazione della corrispondente posizione soggettiva del privato in termini di diritto soggettivo, con il conseguente precipitato processuale in punto di giurisdizione. Sembra, infatti, che debba distinguersi, anche in seno alle attività di tipo vincolato, tra quelle ascritte all’amministrazione per la tutela in via primaria dell’interesse del privato e quelle, viceversa, che la stessa amministrazione è tenuta ad esercitare per la salvaguardia dell’interesse pubblico. Anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica, quindi, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo“.
Il caso deciso riguardava Sempronia che si doleva di essere stata collocata al terzo posto nella graduatoria provinciale dei professori delle scuole secondarie, dopo i colleghi Prima e Secondo, il cui punteggio era stato raddoppiato per avere questi prestato servizio in scuole di montagna nell’anno scolastico 2003/2004. L’attività di accertamento dei presupposti cui la norma subordina l’attribuzione di punteggi aggiuntivi (l’avere prestato servizio presso una scuola di montagna, per tale intendendosi quella che si trova in una località situata al di sopra dei seicento metri di altitudine e da individuarsi con l’ausilio dell’elenco dei comuni di montagna predisposto dall’Unione dei Comuni e delle Comunità Montane) – che a dire di Sempronia l’amministrazione non avrebbe condotto in modo corretto – non implica apprezzamenti in ordine al pubblico interesse né di carattere tecnico, sicché si versa nell’ambito dell’attività vincolata.
Ciò nondimeno, il giudice amministrativo affermava la propria giurisdizione sulla controversia alla luce delle considerazioni prima richiamate. Nel merito il ricorso veniva peraltro ritenuto infondato.
Con riferimento ad altra materia – contributi e sovvenzioni pubbliche – la Cassazione a Sezioni Unite (sentenza 20 febbraio 2007, n. 3848) ha utilizzato un criterio di riparto diverso da quello indicato dalla Plenaria circa la materia concorsuale.
Lucilla, invalida al 90%, presentava domanda di concessione dei benefici del servizio taxi per persone fisicamente impedite alla salita ed alla discesa dei mezzi pubblici di trasporto, ma il Comune X le aveva negato tale diritto, che trovava fondamento nel disposto della l. 104 del 1992, art. 26. A seguito di tale diniego conveniva in giudizio davanti al Tribunale il suddetto Comune al fine di vedersi riconosciuto il diritto ad usufruire del suddetto servizio. Quest’ultimo proponeva regolamento preventivo di giurisdizione, assumendo che la controversia fosse devoluta al giudice amministrativo.
Le Sezioni Unite hanno quindi precisato che in materia di contributi e sovvenzioni pubbliche, il riparto tra giurisdizione tra g.o. e g.a. deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge e alla p.a. è demandato esclusivamente il controllo in ordine alla effettiva sussistenza dei presupposti indicati dalla legge stessa, da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l’ausilio assistenziale, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all’interesse pubblico primario e previo apprezzamento discrezionale dell’an, del quid e del quomodo dell’erogazione…
…Ne consegue che la cognizione della domanda proposta nei confronti del Comune da Lucilla ai fini della concessione del servizio taxi previsto per persone fisicamente impedite alla salita ed alla discesa dei mezzi pubblici di trasporto, in relazione al disposto dell’art. 26 l. 104 del 1992, appartiene alla giurisdizione amministrativa poiché il portatore di handicap è titolare in proposito di un interesse legittimo, dal momento che, la rivendicata provvidenza viene erogata sulla base di una compatibilità con le risorse di bilancio pubblico, da valutarsi discrezionalmente da parte della pubblica amministrazione.
Nel caso di specie, quindi, la giurisdizione amministrativa viene agganciata alla presenza di momenti di valutazione discrezionale nell’esercizio del potere di erogare contributi, mancando i quali – e sussistendo quindi posizioni di diritto soggettivo – andrebbe viceversa affermata la giurisdizione ordinaria.
Prima della l. 15 del 2005, che ha codificato, all’art. 21-septies della l. 241 del 1990, i casi di nullità del provvedimento amministrativo, la Cassazione distinse tra carenza di potere e cattivo esercizio dello stesso. Nel primo caso, il provvedimento sarebbe stato nullo ed inidoneo a “degradare” il diritto soggettivo ad interesse legittimo, con conseguente radicamento della giurisdizione ordinaria; nel secondo caso, trovava applicazione il regime tipico dell’annullabilità, con giurisdizione del g.a..
In materia espropriativa, poi, la Corte di Cassazione aveva coniato una ulteriore distinzione tra carenza di potere in astratto ed in concreto, a seconda che mancasse del tutto la norma attributiva del potere, con conseguente inidoneità del provvedimento a “degradare” la posizione di diritto soggettivo ad interesse legittimo, ovvero che tale norma fosse bensì presente e tuttavia fossero carenti i presupposti da essa previsti per l’esercizio in concreto del potere medesimo (ad esempio quando, pur sussistendo il potere espropriativo come attribuzione, il decreto d’esproprio fosse stato emanato tardivamente rispetto al termine indicato nella dichiarazione di pubblica utilità). Tanto nell’uno quanto nell’altro caso, veniva affermata la giurisdizione del giudice ordinario, in considerazione della natura della situazione giuridica coinvolta (appunto di diritto soggettivo e non di interesse legittimo).
Eloquente è sul punto la pronuncia della Cass. civ., 23 novembre 1992, n. 12514. La controversia traeva origine dall’azione promossa dai proprietari di un suolo oggetto di occupazione d’urgenza i quali chiedevano il risarcimento dei danni patiti dall’atto ablatorio, perché nel termine di cinque anni dall’inizio dell’occupazione legittima non era intervenuto il decreto di esproprio, a nulla rilevando l’illegittima proroga dei termini dell’occupazione stessa.
Il giudice di prime cure, pur affermando la propria giurisdizione, rigettava la proposta domanda di risarcimento dei danni, ritenendo validamente emessi i decreti di esproprio. Anche la Corte d’appello rigettava il gravame, confermando la decisione di primo grado.
La Cassazione però, ribaltando l’esito dei precedenti giudizi, accoglieva con rinvio il ricorso formulato avverso la pronuncia di secondo grado e chiariva che “la procedura espropriativa non può dirsi perfezionata quando il decreto di esproprio risulti emanato non nel termine assegnato all’ente pubblico per il compimento delle operazioni, ma in un momento successivo, quando il potere espropriativo è ormai definitivamente cessato“. Nella specie i decreti di esproprio risultavano inequivocabilmente emessi e notificati quando già era venuto meno il potere espropriativo derivante dalla dichiarazione di pubblica utilità, “sicché il diritto soggettivo del privato si era riespanso, essendo cessato l’affievolimento conseguente alla vigenza ed efficacia della dichiarazione di pubblica utilità“. Precisava la Cassazione che la carenza di potere sussiste “quando il decreto di esproprio è emesso dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, dovuta all’inutile decorso dei termini previsti dall’art. 13 della l. 2359-1865“, e che, anche nelle espropriazioni regolate dalla legge del 1971, l’indicazione dei termini doveva ritenersi essenziale ai fini della validità della dichiarazione di pubblica utilità, costituendo “imprescindibile garanzia per la proprietà privata che l’espropriazione sia subordinata alla persistenza di un interesse pubblico attuale e concreto…
…Il decreto di esproprio emesso dopo la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità per l’inutile decorso dei termini in essa fissati per il compimento dell’espropriazione e dei lavori configura un provvedimento emesso in carenza di potere, così come quando il decreto di esproprio viene emanato senza la preventiva dichiarazione di pubblica utilità. In entrambi i casi il provvedimento, stante la carenza di potere della P.A., interferisce sulla posizione di diritto soggettivo del privato, tutelabile davanti al giudice ordinario con azione restitutoria o come nella specie, con l’azione di risarcimento del danno.
A nulla rileva che i decreti di esproprio siano stati emanati dopo la scadenza della dichiarazione di pubblica utilità, ma durante il tempo dell’occupazione legittima, in quanto l’occupazione d’urgenza resta strutturalmente una fase non necessaria e del tutto eventuale dell’espropriazione, anche se dopo la legge 1 del 1978 che ha inteso accelerare le procedure, precede normalmente la realizzazione di tutte le opere pubbliche“.
In tale contesto è intervenuto l’art. 21-septies, che ha individuato i seguenti casi di nullità del provvedimento amministrativo: a) mancanza di elementi essenziali; b) difetto assoluto di attribuzione; c) violazione o elusione del giudicato; d) gli altri casi espressamente previsti dalla legge.
La giurisprudenza ha chiarito, quanto all’esatta portata della fattispecie di “difetto assoluto di attribuzione”, che essa debba riferirsi alla sola carenza di potere in astratto, cosicché la carenza di potere in concreto rileverebbe esclusivamente in termini di cattivo esercizio del potere (e sarebbe quindi causa di annullabilità).
Il ragionamento seguito dal giudice amministrativo è ben riassunto dalla sentenza del TAR Campania, Napoli, Sez. V, 28 aprile 2005, n. 5025: adito per la declaratoria dell’illegittimità di una procedura espropriativa avviata in carenza dell’indicazione dei termini iniziali e finali del procedimento, il Tribunale amministrativo ha anzitutto affermato la propria giurisdizione. Pur dando atto del consolidato orientamento delle S.U. della S.C. (cfr., da ultimo, Cass., S.U. 14 gennaio 2005 n. 600; 19 maggio 2004 n. 9532; n. 7643 del 2003), secondo il quale “la mancanza iniziale dei termini di cui all’art. 13 della Legge 25 giugno 1865 n. 2359 vizia in radice la dichiarazione di pubblica utilità, comportandone l’originaria invalidità, che si traduce in giuridica inesistenza per carenza (in concreto) di un suo carattere essenziale tipico, con la conseguenza che l’occupazione del bene non è collegabile ad un provvedimento amministrativo emesso nell’ambito e nell’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali della P.A., ma si concreta in una mera attività materiale, oggi sicuramente rientrante nella cognizione dell’A.G.O., in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004“, il Collegio ha aderito al principio ormai consolidato nella giurisprudenza del Consiglio di Stato “secondo cui la dichiarazione di pubblica utilità che non rechi l’indicazione dei termini di cui all’art. 13 L. n. 2859 del 1865 non è nulla e/o inesistente (con conseguente radicamento della cognizione dell’A.G.O.) ma semplicemente annullabile per violazione di legge a seguito di ricorso al G.A. (cfr. C.d.S., A.P., 2 del 2002 e 4 del 2003)“.
Tale principio pare, secondo il g.a., essere stato recepito dal legislatore, il quale, con l’art. 21-septies della l. 241 del 1990, aggiunto dall’art. 14 della l. 15 del 2005, nell’introdurre, per la prima volta in via generale, la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, “ha ricondotto a tale radicale patologia solo il difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, cioè la mancanza in astratto della norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell’area della annullabilità per violazione di legge la categoria della c.d. nullità per carenza di potere in concreto che le S.U. della S.C. avevano coniato proprio con riferimento ai procedimenti espropriativi nei quali la P.A. avesse omesso di fissare i termini di cui all’art. 13 della L. n. 2359 del 1865“.
Accogliendo l’impugnativa, ritiene il TAR che “nella fattispecie non è ravvisabile una mera attività materiale non ricollegabile all’esercizio di poteri autoritativi e discrezionali della P.A., come tale sindacabile dall’A.G.O., ma un procedimento espropriativo che, per quanto illegittimo per violazione di legge, mantiene, nel suo complesso, intatta la propria natura autoritativa, onde a fronte di esso la ricorrente è titolare di posizioni di interesse legittimo (oppositivo) tutelabili dinanzi a questo Tribunale ex art. 34 D.Lvo 80 del 1998, come 34, comma 1, D.Lvo 80/1998, come sostituito dall’art. 7 della L. 205/2000, e nel testo risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004“.
L’omessa indicazione dei termini iniziali e finali del procedimento, richiesti dall’esigenza di rilievo costituzionale di circoscrivere l’assoggettamento dei beni espropriabili al potere discrezionale dell’amministrazione nell’ambito di un arco di tempo valutato congruo per l’interesse generale, vizia, dunque, per il giudice amministrativo l’intera procedura espropriativa, ma non ne determina la nullità, come invece si sarebbe dovuto ritenere aderendo all’orientamento antecedente all’entrata in vigore della novella del 2005.
In relazione ai limiti del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecnico-discrezionali, la giurisprudenza dell’ultimo decennio si è, con tappe successive e non prive di contraddizioni, distaccata dalla tradizionale impostazione, che ancorava il sindacato del giudice amministrativo ai canoni di logicità, congruità e ragionevolezza, alla stessa stregua delle valutazioni autenticamente discrezionali. Con la celebre decisione del 2 marzo 2004, n. 926, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato, infatti, ribadito che “sono in gioco valutazioni complesse, rimesse in prima battuta all’Autorità garante”, afferma di poter compiere comunque una verifica penetrante che “si estende al controllo dell’analisi economica compiuta dall’Amministrazione potendo sia rivalutare le scelte tecniche compiute da questa sia applicare la corretta interpretazione dei concetti giuridici indeterminati alla fattispecie concreta in esame“.
Il formante giurisprudenziale si presenta però discontinuo, giacché alle aperture in tema di atti delle Autorità Amministrative Indipendenti (in particolare dell’Antitrust) corrispondono pronunce su affari di minore importanza economica (giudizi in materia medico-legale, valutazioni espresse da commissioni giudicatrici di prove di concorso, ecc.) collocabili, quanto ai poteri cognitori del giudice, nel solco del tradizionale sindacato sull’eccesso di potere.
Nel settore delle Autorità Amministrative Indipendenti, si registra una recente giurisprudenza che ha eroso i limiti residui all’accertamento in sede processuale della legittimità delle decisioni di tali autorità, benché connotate da un elevato tasso di discrezionalità tecnica.
Interessante il caso deciso da Cons. Stato, Sez. VI, 3 aprile 2009, n. 2092, che traeva origine dall’istruttoria avviata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) nei confronti delle società Alfa, Beta, Gamma e Delta, e volta ad accertare eventuali violazioni dell’art. 2 della l. 287 del 1990 (intese restrittive della libertà di concorrenza). Tale istruttoria si era conclusa con un provvedimento che accertava l’avvenuta violazione della normativa antitrust e che conseguentemente condannava le suddette società al pagamento di cospicue sanzioni pecuniarie. La contestata condotta anticoncorrenziale aveva ad oggetto (e per effetto) il coordinamento dei rispettivi comportamenti in relazione alle gare a fornitore unico indette dalla ASL del Comune X nel 2003 e 2004 per la fornitura di dispositivi medici per stomia. Le società Alfa, Beta, Gamma e Delta insorgevano innanzi al TAR competente per vedere pronunciato l’annullamento del provvedimento sanzionatorio. Il ricorso era accolto limitatamente alla quantificazione dell’importo dovuto, che veniva ridotto del 60%…
…Contro tale sentenza, i ricorrenti in primo grado proponevano appello, deducendo, tra le altre questioni (ad esempio, la società Alfa si doleva altresì della deliberazione di rigetto dell’impegno ex art. 14-ter della l. antitrust consistente nel garantire, per un periodo di due anni, la propria partecipazione, sempre che fosse presente la possibilità di avere condizioni economicamente remunerative e vantaggiose per la società a tutte le gare promosse, in qualunque forma, dalle Aziende Usl o altra pubblica amministrazione, per la fornitura di dispositivi per stomia, formulando le proprie offerte commerciali in piena autonomia di giudizio), l’erronea determinazione del “mercato rilevante”, alla cui stregua (e nel cui ambito) vanno valutati gli effetti distorsivi della concorrenza delle pratiche attuate da determinati operatori. Riproponendo censure già disattese in primo grado, le appellanti invocavano l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio nella parte in cui aveva riconosciuto alla assunta intesa rilevanza nazionale, malgrado la delimitazione del mercato rilevante alla sola distribuzione diretta in una ben ridotta dimensione geografica (province di Y e X). Secondo l’assunto difensivo, quindi, l’intesa sarebbe stata comunque priva di consistenza, non riguardando l’intero mercato nazionale né una parte rilevante dello stesso.
Il g.a. ha rimodulato i contenuti ed i limiti del proprio sindacato giurisdizionale: in particolare, con riferimento alla determinazione del mercato rilevante, ha affermato che essa “implica un accertamento di fatto cui segue l’applicazione ai fatti accertati delle norme giuridiche in tema di mercato rilevante, come interpretate dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale. Tale applicazione delle norme ai fatti implica un’operazione di <<contestualizzazione>> delle norme, frutto di una valutazione giuridica complessa che adatta concetti giuridici indeterminati quali il <<mercato rilevante>> al caso specifico. Non di rado tale operazione di contestualizzazione implica margini di opinabilità, atteso il carattere di concetto giuridico indeterminato di dette nozioni.
Il giudice amministrativo in relazione ai provvedimenti dell’AGCM esercita un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: pertanto, deve valutare i fatti, onde accertare se la ricostruzione degli stessi operata dall’AGCM sia immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le norme giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. Laddove residuino margini di opinabilità in relazione a concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all’AGCM nella definizione del mercato rilevante, se questa sia immune da vizi di travisamento dei fatti, da vizi logici, da violazioni di legge (Cons. Stato, Sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, RC Auto; Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926, buoni – pasto)“.
Nonostante il superamento del c.d. controllo debole, e la connessa potenziale illimitatezza del sindacato, riemerge dunque, per ciò che attiene alle operazioni di contestualizzazione (in quanto tali non totalmente assimilabili ad un accertamento di fatto), la linea secondo la quale, di fronte ad una motivazione ragionevole e adeguatamente istruita, il giudice non ha motivo di ripercorrere l’intero iter argomentativo seguito dalla autorità.
Tutto ciò a meno che il ricorrente non apporti motivi tecnici di grande peso, che inducano ad un riesame integrale della decisione.
In particolare, quanto alla nozione di intesa anticoncorrenziale, il Giudice ha osservato che la relativa prova quasi mai è diretta, ma è più spesso indiziaria, anche se non per questo meno forte. In questo caso, il sindacato si spinge oltre i tradizionali limiti, giacché “pur essendo onere dell’Autorità fornire tutti gli elementi probatori a sostegno delle contestazioni mosse alle imprese [...] spetta pur sempre al ricorrente prospettare ipotesi alternative rispetto a quelle formulate dall’autorità.
Secondo il Consiglio di Stato, “nell’ambito dei procedimenti antitrust dove vengono in gioco leggi economiche ed anche massime di esperienza il criterio guida per prestare il consenso all’ipotesi ricostruttiva formulata dall’autorità è quello della c.d. congruenza narrativa in virtù del quale l’ipotesi sorretta da plurimi indizi concordanti può essere fatta propria nella decisione giudiziale quando sia l’unica a dare un senso alla <<storia>> che si propone per la ricostruzione dell’intesa illecita…
…Il tasso di equivocità del risultato (dipendente dal meccanismo a ritroso con cui si procede all’accertamento del fatto e dal carattere relativo della regola impiegata) viene colmato attraverso una duplice operazione, interna ed esterna: la corroboration, che consiste nell’acquisire informazioni coerenti con quella utilizzata nell’inferenza, e la cumulative redundancy, che consiste nella verifica di ipotesi alternative. La prima operazione fornisce un riscontro alla conclusione, la seconda ne aumenta la probabilità logica grazie al superamento di interpretazioni divergenti degli elementi acquisiti.
In tale quadro i vari “indizi” costituiscono elementi del modello globale di ricostruzione del fatto, coerenti rispetto all’ipotesi esplicativa, coincidente con la tesi accusatoria.
Unitamente all’acquisizione di informazioni coerenti con le contestazioni mosse (riscontri), deve quindi essere esclusa l’esistenza di valide ipotesi alternative alla tesi seguita dall’Autorità.
L’ipotesi accusatoria potrà essere considerata vera quando risulti l’unica in grado di giustificare i vari elementi, o sia comunque nettamente preferibile rispetto ad ogni ipotesi alternativa astrattamente esistente (Cons. Stato, sez. VI, 20 febbraio 2008, n. 594 Jet fuel)“.
Il giudice in definitiva, per un verso, richiede alle imprese ricorrenti un accentuato onere probatorio, per un altro, individua un criterio rappresentato come autonomo sotto il profilo tecnico scientifico per valutare anche le scelte più complesse e opinabili.
Gli appelli venivano comunque respinti nel merito.
Più cauto, come si diceva, l’atteggiamento manifestato dalla giurisprudenza in relazione ad affari c.d. minori.
In materia di giudizi medico-legali (in controtendenza rispetto alla celebre sentenza del 1999 che aveva segnato una svolta circa i limiti del sindacato sulle valutazioni tecnico-discrezionali), è rilevante il caso deciso da Cons. Stato, Sez. VI, 23 marzo 2009, n. 1711. Tizio vedeva rigettata dalla competente amministrazione la richiesta di corresponsione di un equo indennizzo, che questi aveva formulato assumendo la dipendenza da causa di servizio della morte di suo figlio Caio, affetto da sindrome ansiosa e deceduto suicida. Veniva impugnato l’atto che, escludendo una simile dipendenza, negava il riconoscimento dell’indennità richiesta, ma il TAR adito respingeva il ricorso. Segnatamente, la sentenza di primo grado evidenziava che: la patologia del dipendente ed il ricovero ospedaliero erano stati da quest’ultimo nascosti e che quindi non sussisteva nesso di causalità tra tale infermità e la morte sopravvenuta; l’aver celato il ricovero fosse stato correttamente considerato come sintomo di non gravità della sindrome ansiosa; che la motivazione per relationem – con richiamo ai pareri espressi dall’autorità competente nel corso del procedimento sull’istanza di indennizzo – fosse sufficiente, non essendo altrimenti conoscibile l’iter logico seguito dall’amministrazione. Tizio impugnava la sentenza del TAR, deducendo il vizio di motivazione del provvedimento (sulla base della considerazione che anche i pareri richiamati sarebbero stati viziati da un evidente difetto di istruttoria) e quello di carenza dell’istruttoria.
In relazione a tale ultima censura, il Collegio afferma che “il carattere tecnico-discrezionale delle valutazioni svolte durante tale istruttoria limita il loro vaglio da parte del giudice ai solo casi in cui emergano elementi di erroneità“, con esclusione di un sindacato di tipo intrinseco.
In tema di valutazioni espresse da commissioni giudicatrici di prove di concorso, può essere d’aiuto la descrizione del caso deciso da Cons. Stato, Sez. IV, 27 marzo 2008, n. 1248.
Tizia aveva partecipato alla sessione degli esami d’avvocato 2006, presso la Corte d’Appello di X. La commissione valutava gli elaborati della candidata non sufficienti, escludendola dalla partecipazione alla prova orale. Tizia proponeva ricorso al competente TAR, deducendo la illogicità, contraddittorietà ed erroneità della motivazione posta dall’Amministrazione a base della “bocciatura” dei suoi elaborati ed il vizio di eccesso di potere per sviamento di potere, ravvisato nella “valutazione eccessivamente selettiva” dei candidati, posta in essere dalle Commissioni esaminatrici, al fine di reintrodurre surrettiziamente i c.d. albi chiusi o programmati. Il TAR respingeva il ricorso. Per l’annullamento della sentenza Tizia ricorreva in appello, ripercorrendo l’iter argomentativo già svolto in primo grado. In disparte la questione circa la sufficienza del voto numerico ai fini dell’adempimento dell’obbligo di motivazione, oggetto di un obiter nella pronuncia impugnata, il Consiglio di Stato ha rilevato che, “in linea con la consolidata giurisprudenza sul punto, le valutazioni espresse dalle commissioni giudicatrici in merito alle prove di concorso, seppure qualificabili quali analisi di fatti (correzione dell’elaborato del candidato con attribuzione di punteggio o giudizio) e non come ponderazione di interessi, costituiscono pur sempre l’espressione di ampia discrezionalità, finalizzata a stabilire in concreto l’idoneità tecnica e/o culturale, ovvero attitudinale, dei candidati, con la conseguenza che le stesse valutazioni non sono sindacabili dal giudice amministrativo, se non nei casi in cui sussistono elementi idonei ad evidenziarne uno sviamento logico od un errore di fatto, o, ancora, una contraddittorietà ictu oculi rilevabile“. Anche in questa materia, quindi, è escluso un sindacato di tipo intrinseco.
Per ogni ulteriore approfondimento sulla tematica in esame, si rinvia allo studio della parte speciale: LIGUORI, La funzione amministrativa. Aspetti di una trasformazione. Napoli, ES, 2009 (spec. capp. II e III).
La qualificazione di un provvedimento come atto politico – anche se a ben vedere ogni provvedimento discrezionale contiene elementi di politicità – ha come conseguenza l’esclusione di qualsiasi sindacato giurisdizionale (art. 31 t.u. Cons. Stato: r.d. 1054 del 1924): si ritiene che tale regime non contrasti con l’art. 113 Cost. poiché gli atti politici, caratterizzati da una notevole discrezionalità e dalla libertà nel fine, non sono idonei a ledere posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo, le uniche cui l’ordinamento assicura tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione; oltre a ciò, l’eventuale sindacato del giudice determinerebbe una indebita interferenza di questi nell’ambito di altri poteri.
Nel novero degli atti politici rientrano senza dubbi: lo scioglimento delle Camere e la nomina di un Ministro. In altre fattispecie, la qualificazione del provvedimento in termini di atto politico, con conseguente esclusione del sindacato giurisdizionale, è invece meno agevole.
Un caso rilevante, anche in seguito alle riforme costituzionali intervenute nel 2001, è quello della revoca assessorile, di cui la giurisprudenza prevalente tende a negare il carattere politico, con quanto ne consegue dal punto di vista processuale.
Interessante è al riguardo il caso deciso da Cons. Stato, Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209.
Tizio, assessore del Comune Alfa, impugnava con successo innanzi al TAR competente il provvedimento di revoca dalla carica assessorile. Il giudice di primo grado riteneva decisiva ai fini dell’annullamento dell’atto la mancata comunicazione di avvio del relativo procedimento; preliminarmente, tuttavia, il giudice qualificava l’atto impugnato come amministrativo, onde affermare l’ammissibilità del ricorso.
Il Comune Alfa impugnava in appello, insistendo anzitutto per l’inammissibilità del ricorso, sul presupposto che la revoca assessorile rientri tra gli atti di cui all’art. 31 del t.u. Cons. Stato, in quanto proveniente dal Sindaco, massimo organo di indirizzo e direzione dell’amministrazione comunale, e diretto alla tutela del regolare funzionamento dell’organo di governo, la Giunta comunale. In conseguenza di ciò, assumeva l’appellante, la partecipazione dell’interessato al relativo procedimento non avrebbe avuto alcuna incidenza su una decisione che è massima espressione della discrezionalità amministrativa, per la quale unico criterio di riferimento rimane il programma politico-amministrativo cui il sindaco eletto si è autovincolato nei confronti del corpo elettorale, e la cui attuazione è l’unico parametro che deve uniformare la relativa azione amministrativa.
Al riguardo, osserva il Collegio che “priva di pregio è l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario, sollevata dal Comune in base al rilievo che la revoca dell’incarico di assessore comunale sarebbe inquadrabile tra gli atti politici e perciò non impugnabile davanti al giudice amministrativo alla stregua dell’art. 31 t.u. Cons. Stato (r.d. 1054 del 1924) secondo cui <<il ricorso al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale non è ammesso se trattasi di atti o provvedimenti adottati dal Governo nell’esercizio del potere politico>> [...]. È stato al riguardo precisato che gli atti politici costituiscono espressione della libertà (politica) commessa dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili a questo inerenti e che essi sono liberi nella scelta dei fini, mentre gli atti amministrativi, anche quando sono espressione di ampia discrezionalità, sono comunque legati ai fini posti dalla legge. Si è sottolineato che essi sono caratterizzati da due profili: l’uno soggettivo, dovendo provenire l’atto da organo della pubblica amministrazione, seppure preposto in modo funzionale e, nella specifica vicenda, all’indirizzo e alla direzione al massimo livello della cosa pubblica, e l’altro oggettivo, dovendo riguardare la costituzione la salvaguardia ed il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione [...].
…Peraltro, pur nell’ambito di una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, è stato ribadito che il principio della tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione ha portata generale e coinvolge, in linea di principio, tutte le amministrazioni, anche di rango elevato e di rilievo costituzionale. Per cui le deroghe a simile principio debbono essere ancorate a norme di carattere costituzionale. Non sono quindi, per i loro caratteri intrinseci, soggetti a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l’intervento del Giudice determinerebbe un’interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri [...].
L’atto sindacale di revoca di un assessore (o di più assessori) da un lato non è libero nella scelta dei fini, essendo sostanzialmente rivolto al miglioramento della compagine di ausilio del sindaco nell’amministrazione del comune, e dall’altro è sottoposto alla valutazione del consiglio comunale ai sensi dell’art. 46, ult. co., d.lgs. 267 del 2000. Di conseguenza, deve ritenersi ammissibile l’impugnativa di un atto del genere davanti al giudice amministrativo in quanto posto in essere da un’autorità amministrativa e nell’esercizio di un potere amministrativo, sia pur ampiamente discrezionale“.
L’appello del Comune veniva comunque accolto nel merito.
Contigua alla categoria dell’atto politico è quella dell’atto di alta amministrazione, caratterizzato da una assai ampia discrezionalità, ma soggetto alla legge ed al sindacato giurisdizionale.
Tra gli atti di alta amministrazione la prevalente giurisprudenza ricomprende l’atto di scioglimento di un Consiglio comunale per collegamenti con la criminalità organizzata. È interessante a tal proposito il caso deciso da Cons. Stato, Sez. IV, 2 marzo 2007, n. 1004.
Il Sindaco e gli amministratori del Comune Alfa impugnavano innanzi al TAR competente: a) il decreto del presidente della Repubblica, recante lo scioglimento del Consiglio comunale di Alfa per la durata di diciotto mesi, ai sensi dell’art. 143 TUEL; b) la proposta all’uopo avanzata dal Ministero dell’Interno; c) la deliberazione del Consiglio dei Ministri; d) la relazione della Commissione d’accesso; e) la relazione del Prefetto di Beta (capoluogo della provincia in cui è situato il Comune di Alfa). I ricorrenti lamentavano diversi motivi di violazione di legge ed eccesso di potere, riproposti pedissequamente in sede d’appello dopo il rigetto della domanda di annullamento da parte del giudice di prime cure…
…Dopo avere chiarito i requisiti per l’esercizio del potere di cui all’art. 143 TUEL (l’emersione di elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata ovvero su forme di condizionamento degli amministratori stessi, tali da compromettere la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali), il Collegio si pronunciava sulla natura giuridica del decreto di scioglimento, al riguardo precisando che esso “pur non potendosi qualificare atto politico, non costituisce neppure misura a carattere sanzionatorio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2000, n. 585, e Cons. Stato, sez. IV, 21/11/1994, n. 925), bensì è da qualificare come una <<misura di carattere straordinario>> per fronteggiare <<una emergenza straordinaria>> (cfr. in tal senso, Corte cost. 19 marzo 1993, n. 103, nell’escludere profili di incostituzionalità dell’antecedente omologo art. 15-bis, l. 55 del 1990).
Si tratta, invero, di potere straordinario a tutela della funzionalità degli organi elettivi e della rispondenza a fondamentali canoni di legalità dell’apparato dell’ente locale interessato, in un quadro di lotta alla criminalità organizzata e di connesso avanzamento della soglia di prevenzione rispetto a fatti anche sintomatici di interferenze malavitose sulla fisiologica vita democratica dell’ente…
…In conclusione, lo scioglimento del Consiglio comunale ai sensi dell’art. 143 TUEL rappresenta la risultante di una valutazione il cui asse portante è costituito, da un lato, dalla accertata o notoria diffusione sul territorio della criminalità organizzata e, dall’altro, dalle precarie condizioni di funzionalità dell’ente in uno o più settori, sensibili agli interessi della criminalità organizzata, ovvero di una situazione di grave e perdurante pregiudizio per la sicurezza pubblica.
Sono questi i limiti entro i quali deve manifestarsi l’ampia potestà di apprezzamento dell’amministrazione, e l’atto nel quale essa trova concreta espressione può essere assoggettato al vaglio giurisdizionale, come è regola generale nel giudizio di legittimità, in presenza di vizi che denotino, con sufficiente concludenza, la deviazione del procedimento dal suo fine istituzionale, nonché in ipotesi di carenza di completezza della motivazione e dell’istruttoria, nonché di difetto di logicità della ponderazione e valutazione amministrativa.”…
…Circa i limiti del sindacato giurisdizionale nel caso in questione (gli appellanti, originari ricorrenti, chiedevano infatti al giudice di valutare nel merito la sussistenza del collegamento con la criminalità organizzata), il Collegio precisa che “il sindacato giurisdizionale sul corretto esercizio del potere di scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione delinquenziale, avendo natura estrinseca e formale, non può andare oltre la verifica della ricorrenza di un idoneo e sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell’esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole. In tale contesto interpretativo, pertanto, il giudice amministrativo non può estendere il sindacato al merito della decisione, sostituendo, in particolare, il proprio apprezzamento a quello dell’amministrazione nella quantificazione della rilevanza delle prove e soprattutto degli indizi al fine di ritenere configurato il condizionamento mafioso, rimesso, invece, agli apparati operativi e di controllo dell’amministrazione stessa i quali, operando, tra l’altro, sul territorio, hanno l’immediata e diretta percezione del clima locale e sono, pertanto, nella migliore condizione per adeguatamente misurare il peso delle prove e degli indizi posti a giustificazione della grave misura adottata“.
Il Consiglio di Stato, nella specie, confermava la sentenza del TAR.
Un caso interessante che viceversa la giurisprudenza ricomprende nella nozione di atto politico è quello dei provvedimenti adottati in esecuzione di accordi internazionali tra Stati. Si pensi all’esempio del decreto di estradizione “che abbia a presupposto giuridico un trattato ovvero che avvenga nell’ambito di più generali finalità di collaborazione fra Stati per la prevenzione della delinquenza comune” (TAR Puglia, Bari, 20 dicembre 1990, n. 970).
È assai rilevante anche la vicenda che ha portato all’autorizzazione dell’ampliamento della base U.S.A. Dal Molin, in Veneto…
…Le opere oggetto di autorizzazione non erano riconducibili alle attività a diretto finanziamento NATO, ma si inquadravano nelle attività a diretto finanziamento statunitense, regolamentate dall’Accordo bilaterale Italia – U.S.A. del 20 ottobre 1954, stipulato nell’ambito della mutua collaborazione tra i paesi aderenti alla NATO, e che attribuisce ad una Commissione mista collocata nell’ambito della Direzione generale dei lavori e del demanio del Ministero della Difesa (Geniodife) la competenza relativa all’attuazione di tali programmi. Il memorandum tra il Ministero della Difesa ed il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti del 2 febbraio 1995 aveva confermato le competenze della suddetta commissione mista in relazione alle opere finanziate esclusivamente con fondi statunitensi. L’art. 5 del d.p.r. 170 del 2005 (“Regolamento concernente disciplina delle attività del genio militare a norma dell’art. 3, comma 7-bis, della l. 11 febbraio 1994, n. 109“) ha poi chiaramente previsto: che la realizzazione di infrastrutture sul territorio nazionale, finanziata dai paesi alleati è disciplinata da appositi memorandum d’intesa; che le attività connesse alla realizzazione delle infrastrutture sono espletate da Geniodife sulla base di progetti realizzati dal paese alleato, fatti salvi i particolari casi in cui, su proposta di Geniodife, lo Stato maggiore della difesa autorizzi il paese alleato all’espletamento di tutte le attività connesse alla realizzazione; che in entrambi i casi appositi accordi regolano le modalità di controllo da parte delle autorità nazionali.
La disciplina in esame si presenta derogatoria rispetto a quella comune, tale specialità riguardando anche le procedure di affidamento dei relativi lavori, da espletarsi senza il rispetto della normativa interna e comunitaria, e senza fornire giustificazione circa la praticabilità di legittime deroghe in presenza dei necessari presupposti.
Contro la suddetta determinazione autorizzatoria (adottata in data 17 luglio 2007) insorgevano diversi enti esponenziali degli interessi della collettività locale (tra cui anche il Codacons), per vedere innanzitutto pronunciata in sede cautelare la sospensione del provvedimento impugnato. Il TAR adìto accoglieva la domanda di sospensione (TAR Veneto, ord. 18 giugno 2008, n. 438), in considerazione della mancanza di qualsiasi riscontro di avvenuta consultazione della popolazione interessata, secondo le disposizioni del memorandum del 1995, nonché dell’impatto “del consistente insediamento sulla situazione ambientale, del traffico, dell’incremento dell’inquinamento e in ordine al rischio del danneggiamento e dell’alterazione delle falde acquifere“.
Presentava appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri, per l’annullamento dell’ordinanza cautelare resa dal TAR. Il Consiglio di Stato (ordinanza 29 luglio 2008, n. 3992) ha ritenuto “che: 1) le attività di cui si discute sono regolamentate da accordo bilaterale internazionale fra Italia e Stati Uniti d’America; 2) le procedure fissate in tale accordo prevedono il totale finanziamento a carico degli Stati Uniti e l’assegnazione delle commesse sulla base della procedura speciale pattizia e non delle norme interne, salvo che per le norme italiane di carattere generale regolanti le costruzioni; 3) l’atto di assenso del Governo italiano alla richiesta del Governo statunitense costituisce espressione di potere politico, insindacabile a livello giurisdizionale; 4) la determinazione autorizzatoria impugnata è rispettosa delle condizioni previste per l’approvazione del progetto; 5) non è prevista negli accordi intervenuti fra i due Governi la consultazione popolare; 6) non appaiono comprovate ragioni di danno ambientale capaci di costituire ostacolo alla realizzazione delle opere in questione“.
Non ritenendo sussistenti i requisiti per la concessione del provvedimento cautelare chiesto in primo grado, il Collegio riformava l’ordinanza impugnata e per l’effetto respingeva la domanda cautelare avanzata dai ricorrenti in primo grado.
1. I soggetti e l'oggetto del diritto amministrativo
5. I principi ed il responsabile del procedimento. La comunicazione di avvio al procedimento.
6. La partecipazione al procedimento amministrativo
8. Le diverse tipologie di provvedimento
9. La patologia del provvedimento amministrativo
11. Le procedure di evidenza pubblica
12. La giustizia amministrativa. Evoluzione storica e principi basilari