L’attività processuale è effettuata in vista del raggiungimento degli effetti riconducibili all’integrazione di una determinata fattispecie. Il che significa che gli atti processuali sono espressione delle posizioni potenziali o concretamente assunte dai soggetti che li pongono in essere. Se l’identificazione di una fattispecie dipende dalla sua struttura, la valenza del suo significato e della sua funzione sono geneticamente connesse alla natura degli effetti ad essa ricollegati.
L’insieme degli elementi richiesti per l’integrazione della fattispecie è costruito sul modello “logico” potere-atto-scopo, che descrive l’attribuzione del potere, la tipologia dell’atto e la funzione nella progressione processuale. Qualora, poi, uno degli elementi risulti in tutto o in parte difforme dalla fattispecie, il verificarsi delle conseguenze tipiche rimane precluso, almeno fino a che l’elemento mancate venga integrato. Ma il fatto giuridico, cioè il comportamento, c’è, sussiste ed è rilevante. Il fatto è il presupposto dell’operatività della regola, vivendo con essa in un rapporto simbiotico che si esprime nell’integrazione dello schema.
Il principio di legalità diviene criterio di valutazione del comportamento fino a comprenderne l’aspetto teleologico. Il soggetto sceglie di instaurare una certa situazione oggettiva secondo il tenore della disposizione, perché vi è un rapporto di necessarietà tra la condotta – mezzo – e lo scopo funzionale che si raggiunge attraverso la conformità. Per l’integrazione di un fatto giuridico è necessario il concorso di tutti i suoi elementi; e sebbene la condotta abbia un valore quasi totalizzante, essa è valutata dall’ordinamento nel suo insieme sia per l’individuazione dei relativi connotati sia per l’essere presupposto necessario al verificarsi dell’effetto.
L’atto processuale, sebbene integri la fattispecie, non è sempre efficace, ma lo è soltanto potenzialmente; ed è questa la premessa per il distinguo tra efficacia e validità, con il duplice risvolto negativo che l’inefficacia si muove sul piano della funzionalità dell’atto, viceversa l’invalidità sul piano della rilevanza. All’interno della fattispecie processuale vi è un nucleo costituito dall’oggetto di qualificazione che rappresenta il criterio di orientamento nella individuazione del confine tra inesistenza ed invalidità dell’atto; la prima si ha nell’ipotesi in cui manca un elemento tipico; la seconda, invece, allorquando l’elemento c’è, ma si presenta viziato.
L’atto assume rilevanza giuridica se c’è corrispondenza tra lo schema normativo della fattispecie e il complesso degli elementi costitutivi; essa si manifesta sotto il profilo dell’idoneità dell’atto a provocare mutamenti nella sfera delle effettualità giuridiche. Dunque, l’attività di qualificazione ha ad oggetto, da un lato, il riconoscimento del fatto corrispondente allo schema tipico e, dall’altro, l’attribuzione di efficacia all’atto, passando dal piano della mera idoneità al collegamento degli effetti prescritti dalla norma. Il che significa che il concetto di rilevanza è autonomo ed antecedente logicamente al concetto di efficacia.
Abbiamo già osservato che se manca un presupposto di rilevanza la fattispecie è inesistente giuridicamente; diversamente se il presupposto è riscontrabile in maniera viziata, essa si connota per la precarietà. Se a mancare, invece, è un presupposto di efficacia, la fattispecie è da ritenersi perfetta nei suoi elementi strutturali, ma non produttiva in tutto o in parte delle conseguenze giuridiche.
In sintesi, la fattispecie processuale assume il valore di tutela delle situazioni soggettive in movimento nel processo, risolvendosi nel parametro di misura della legalità del comportamento e riferendosi ad esso con la predisposizione di modelli. Da qui nasce la tipicità del modello e, quindi, dell’atto processuale. Perciò le norme processuali svolgono un ruolo primario, esse non sono soltanto norme di organizzazione della funzione di ius dicere, ma esplicano una funzione servente alla tutela dei diritti inviolabili, mostrando il profilo dinamico dell’ordinamento.
E’ormai un dato acquisito il progressivo cedimento del carattere di strumentalità del processo rispetto al diritto sostanziale, che aveva condotto all’affermazione dell’accessorietà del diritto processuale con la conseguente perdita della sua autonomia. Questa tesi risentiva fortemente delle influenze della dottrina tedesca secondo cui dalla costruzione di un sistema legale di valori si origina la circolarità della produzione giuridica attraverso un “apparato di trasmissione” dalla connotazione servente e dalla natura dichiarativa.
Il rapporto tra diritto sostanziale e processo oggi vede il secondo nelle sembianze di “socio paritario” del diritto penale, sebbene vi sia chi rappresenta il processo come “socio tiranno” del primo in un rapporto di strumentalità inversa. Invero, anche in quest’ultima direzione la strumentalità conduce a risultati negativi in quanto trasforma il processo in luogo privilegiato del controllo sociale.
1. Democrazia, legalità e processo
3. Il conflitto tra le due Corti
4. Il principio di legalità processuale
8. L'incompatibilità del giudice per gli atti compiuti nel procedimento
9. L'opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione
10. La difformità della richiesta di rinvio a giudizio dal modello legale
11. Le vicende dell'imputazione
12. Il principio di correlazione tra l'accusa contestata e la sentenza
13. La nullità della sentenza per difetto di contestazione
14. L'invalidità della domanda di accesso ai riti alternativi
15. Il ricorso immediato della persona offesa e l'inerzia del pubblico ministero
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G. Foschini, Tornare alla giurisdizione, Milano, 1971, p. 6. Di recente, si segnala V. Garofoli, Il servo muto e il socio tiranno: evoluzione ed involuzione nei rapporti tra diritto penale e processo, in Dir. pen. e proc., 2004, n. 12, p. 1457.
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1. Democrazia, legalità e processo
4. Il principio di legalità processuale
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