L’imputazione è l’atto genetico del processo, l’oggetto ed il confine dell’avvenimento probatorio, il limite sia dei poteri di ammissione della prova sia dei poteri decisori del giudice, ma questa dimensione finalistica si specifica in ragione del momento processuale in cui essa opera.
Perciò, se nell’udienza essa rileva ai fini del corretto esercizio dell’azione penale, nel giudizio essa salvaguarda il rapporto tra fatto, poteri probatori e decisione: è questa la singolare visione funzionalistica che attinge ad un modello processuale caratterizzato dalla bifasicità disomogenea tra azione e giudizio; è questa la fonte razionale della predisposizione della regola della correlazione, la cui ontologia si concretizza nella piena identità tra il fatto indicato nella sentenza e quello risalente al prius dell’accusa. In tal modo si impedisce che l’imputato possa essere condannato per un fatto non contestato.
Il principio della correlazione è sancito nell’art. 521 c.p.p., il cui contenuto normativo si connota per l’affidamento al giudice dei rimedi correttivi, che fungono da griglia di protezione rispetto al valore legale della sentenza. Qualora nel corso dell’istruzione dibattimentale si verifichino i presupposti indicati dagli artt. 516 e 517 c.p.p., il pubblico ministero deve adeguare l’imputazione alle risultanze probatorie e poiché si tratta di un obbligo il controllo giudiziale non ha natura preventiva, ma postuma, in quanto proiettato sulla correttezza dell’atto che chiude la serie processuale dell’accertamento, ovvero della sentenza.
Se è così, la correlazione è il canone di orientamento della funzione giurisdizionale nell’esplicazione del controllo sulla legalità e sull’esito della procedura contestativa, confluendo in esso anche l’eventuale inerzia del pubblico ministero. Difatti, nell’ipotesi in cui il pubblico ministero non abbia attivato il meccanismo descritto dall’art. 516 c.p.p., il contesto ordinamentale impone al giudice di dichiarare di non poter decidere nel merito e di rimettere gli atti all’organo dell’accusa.
Dunque, una volta accertato il difetto di correlazione il giudice è privo del potere di emettere sentenza, dal momento che l’art. 521 comma 2 c.p.p. gli impone di disporre con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero, affinchè il vizio possa essere emendato prima della deliberazione della sentenza. Il giudice è spogliato dei poteri decisori, ma non del processo.
Perciò, la condotta del giudice, non conforme a tale schema comportamentale, segnerebbe un punto di rottura nella logica distributiva dei poteri, sovvertendo il susseguirsi dei momenti giuridicamente rilevanti nella successione teleologica degli atti. In sostanza il giudice deve prendere atto dell’impossibilità di assumere una decisione di chiusura del processo sulla base di una valutazione di accertamento negativo, in cui attesta la non corrispondenza dell’accadimento naturalistico alla descrizione contenuta nel decreto di rinvio a giudizio.
Ciò che è emerso dall’istruzione dibattimentale non è, quindi, la sua irrilevanza penale, bensì i termini della sua configurazione e, rimanendo ferma la sua rilevanza, non vi è ragione per la regressione alla fase delle indagini. Le stesse osservazioni valgono per il rimedio correttivo di cui all’art. 521 comma 3 c.p.p., qualora il giudice nella delibazione postuma inerente al contenuto del modulo contestativo verifichi che «il pubblico ministero abbia effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518 comma 2».
Anche in questo caso il giudice verte in una situazione di difetto di potere decisorio, dovendo emettere l’ordinanza di restituzione degli atti ai fini della correzione dell’atto imputativo. Ora, se questo è lo scopo dell’ordinanza, occorre stabilire la reale natura degli effetti correlativi, ed in particolare, se essi siano classificabili come regressivi, pur rimanendo endoprocessuali, oppure debbano ritenersi epilogativi del processo in corso.
Nell’ambito del dibattito dottrinario è prevalsa l’idea secondo cui l’ordinanza costituisca una decisione di rito che chiude la serie processuale già avviata, determinando la regressione alla fase delle indagini preliminari. Il che significa che nel solco del medesimo fatto storico si apre un nuovo itinerario, il cui esito può essere anche l’archiviazione ai sensi degli art. 408 c.p.p. e 125 disp. att. o 411 c.p.p.
A condividere questa impostazione vi è chi riconosce al provvedimento di trasmissione degli atti l’effetto – secondo me alquanto singolare – di riapertura delle indagini che indurrebbe il pubblico ministero ad una nuova iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. Dall’esercizio della nuova azione penale, poi, scaturirebbe l’utilizzabilità degli atti del processo “chiuso”. A noi sembra, invece, che nella fattispecie di cui all’art. 521 c.p.p., il giudice, emettendo l’ordinanza di trasmissione degli atti, riconosce corretto l’esercizio dell’azione penale, ma viziato l’oggetto. Da qui la superfluità di un nuovo esercizio dell’azione penale.
Alla luce di questo rilievo se si addivenisse ad una interpretazione letterale dell’art. 521 comma 2 c.p.p. – ovvero alla restituzione degli atti al pubblico ministero – si verificherebbe una forma di ritrattazione dell’azione, cioè, una forma patologica di regressione. Viceversa, qui la restituzione degli atti al pubblico ministero è funzionale al transito alla sede naturale del controllo (=udienza preliminare), transito necessario a causa del dichiarato fallimento di esso quanto all’oggetto del processo.
A nostro avviso, nel caso di specie il dominus dell’atto introduttivo del processo non è più il pubblico ministero, avendo costui già esercitato l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio sulla quale il giudice si è pronunciato emettendo il decreto, cioè l’atto su cui si è innestato il dibattimento.
Ebbene, nonostante il rapporto di reciproca strumentalità tra azione e thema probandum, queste possono manifestare autonomi vizi: di esercizio, la prima, di oggetto, la seconda; e se, infine, il vizio rileva in quanto contenuto dell’atto propulsivo del giudizio, risulta evidente che il legislatore nell’art. 521 comma 2 c.p.p. individua anche la sedes materiae, ossia il momento nel qual esso si è verificato, non avendo funzionato, in quella sede, il meccanismo correttivo predisposto al fine della legalità del giudizio. Insomma, sono la funzione e l’esito giudiziale dell’udienza a porre il decreto di rinvio a giudizio nel dominio del giudice dell’udienza preliminare.
Sul piano sistematico, la tesi che ricostruisce l’ordinanza di trasmissione degli atti come decisione di rito è smentita dall’art. 60 comma 2 c.p.p., che tipizza i provvedimenti di chiusura dell’avvenimento processo, tra questi: il decreto penale di condanna, la sentenza di non luogo a procedere, la sentenza di proscioglimento o di condanna, ma non anche l’ordinanza di trasmissione ex art. 521 comma 2 c.p.p. Ora, se è vero che l’elencazione non può ritenersi tassativa quanto all’aspetto della consunzione dello status di imputato – si pensi agli effetti connessi alla declaratoria di nullità della richiesta di rinvio a giudizio per omesso avviso ex art. 415 bis c.p.p. – lo è, invece, quanto alla tipologia dei provvedimenti che possono terminare la serie di atti processuali già avviata.
La proiezione finalistica dell’ordinanza manifesta la natura regressiva ed endoprocessuale dei suoi effetti e fonda il ritorno all’udienza preliminare per l’aggiornamento dell’imputazione, contenuta nel decreto di rinvio a giudizio, alle risultanze del processo.
Sicchè il controllo ex art. 521 comma 2 c.p.p. attesta i limiti fisiologici della reazione del giudice all’inosservanza dell’obbligo di uniformare la storicità del fatto alle emergenze del risultato probatorio e si sostanzia, da un punto di vista generale, nel riconoscimento della titolarità di questa funzione al pubblico ministero. Peraltro, è il nesso di interdipendenza tra trasmissione degli atti e attuazione dei correttivi dell’imputazione a governare la logica della regressione fino alla sede dell’emendatio del decreto di rinvio a giudizio, cioè fino all’udienza preliminare. A nostro avviso l’art. 521 c.p.p. è posto a specifica tutela dei doveri decisori del giudice dibattimentale; non condividendo questa impostazione la dottrina prevalente e la giurisprudenza ne estendono l’operatività anche all’udienza preliminare.
Other Placeholder: Invero, l’art. 521 c.p.p. fa espressamente riferimento alla sentenza in senso tecnico, offrendo un primo argomento contrario a quanti sostengono la praticabilità del metodo analogico, dal momento che la correlazione sarebbe riferibile solo alla sentenza di non luogo a procedere e non anche al decreto di rinvio a giudizio, questa sarebbe una contraddizione in termini. Va detto, poi, che l’analogia non può riguardare norme attributive di potere, in base al rilievo che tale attribuzione risponde sempre alla tutela di uno specifico valore costituzionale.
In estrema sintesi l’art. 521 c.p.p. è strutturato sulle esigenze del giudizio rispetto al quale l’imputazione, sintesi di molteplici profili, ricompone il carattere polimorfo sotto la veste di thema decidendum, il cui oggetto è la responsabilità dell’imputato; questi tratti connotativi non sono compatibili con l’udienza preliminare, il cui oggetto, invece, è il controllo sull’imputazione come esercizio dell’azione, essendo l’onere probatorio proiettato sul dibattimento. Dunque, se la correlazione è predisposta in ragione delle pari opportunità probatorie generate dall’imputazione nel dibattimento e se essa è finalizzata all’emissione di una corretta sentenza di condanna e/o di assoluzione, ciò vale ad escludere la comunanza dell’eadem ratio con l’udienza preliminare.
Non a caso il comma 1 dell’art. 521 attribuisce al giudice un potere discrezionale – “nella sentenza il giudice può” – un potere che costituisce un dovere giurisdizionale in altri momenti antecedenti a quello della decisione, in virtù della regola iura novit curia, che opera ogniqualvolta si provoca la giurisdizione, essendo il giudice sottoposto alla legge e, quindi, alla legalità processuale.
Tuttavia, il comma 1 dell’art. 521 c.p.p. si connota come norma speciale per le peculiarità del contesto in cui opera, per i significati caratterizzanti che assume, pervenendo addirittura a negare la necessità della correlazione quanto al nomen iuris. Perciò, la sua espressa previsione conferma la natura eccezionale, poiché ci troviamo nella fase epilogativa del processo ed il controllo sulla veste formale del fatto già doveva essere stato esplicato – nell’udienza preliminare –, derivando esso dal principio generale intrinseco all’esercizio della funzione di ius dicere. Per cui la ratio di rendere esplicita la regola va colta nel bisogno di vincere le resistenze strutturali della fase dibattimentale alla sua applicazione.
Riepilogando, l’ordinanza di cui all’art. 521 commi 2 e 3 c.p.p. ha una fisionomia bifronte, quale meccanismo di rilevanza delle risultanze dell’istruzione dibattimentale e rimedio emendativo del vizio di correlazione. Essa copre l’area delle patologie sul versante contenutistico dell’atto imputativo, che in quanto tali non consentono l’assunzione della decisione giudiziale. Sicchè il fondamento della connotazione servente alla valida emanazione della sentenza si rinviene sul terreno dell’essenza della funzione di accertamento che, avendo ad oggetto la responsabilità dell’imputato per un fatto-reato, impone all’ordinamento, da un lato, di bloccare la decisione e, dall’altro, di correggere il vizio dell’oggetto su cui dovrà cadere la deliberazione.
Dunque, è la funzione di accertamento a divenire essa stessa criterio risolutorio dell’alternativa assoluzione-condanna, ponendo il limite per il giudice di non allontanarsi da un giudizio che verta sul fatto individuato alla stregua dell’art. 649 c.p.p., oltre che sulla descrizione dell’accusa. Per queste ragioni, la verifica giudiziale è preventiva rispetto alla sentenza e postuma rispetto all’operato del pubblico ministero, in quanto nonostante la correttezza dell’eventuale procedura contestativa, il giudice può rilevare il difetto di correlazione nei suoi connotati sostanziali. Difatti, l’art. 521 comma 2 c.p.p. individua tra i termini di relazione della diversità del fatto anche la contestazione effettuata ai sensi degli artt. 516, 517 e 518 c.p.p. Ciò attesta la natura non formale del vizio, peraltro, comune alla situazione di cui all’art. 521 comma 3 c.p.p., là dove addirittura si esula dai casi previsti. Insomma, l’ordinamento affida al giudice, nella proiezione della sentenza ed in via preventiva, la legalità dell’accertamento.
1. Democrazia, legalità e processo
3. Il conflitto tra le due Corti
4. Il principio di legalità processuale
8. L'incompatibilità del giudice per gli atti compiuti nel procedimento
9. L'opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione
10. La difformità della richiesta di rinvio a giudizio dal modello legale
11. Le vicende dell'imputazione
12. Il principio di correlazione tra l'accusa contestata e la sentenza
13. La nullità della sentenza per difetto di contestazione
14. L'invalidità della domanda di accesso ai riti alternativi
15. Il ricorso immediato della persona offesa e l'inerzia del pubblico ministero
D. Rocchi, Sul principio della correlazione tra accusa e sentenza nel prevalente orientamento della Corte di Cassazione, in Giur. it. , 2002, pag. 241.
S. Grabbi, Violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando il fatto diverso sia stato prospettato dala difesa a sua discolpa, in Giur. it. , 2001, pag. 1416.
E. M. T. Di Palma, Correlazione tra accusa e sentenza e giudizio di appello, in Cass. pen. , 2000, pag. 1289.
C. Iasevoli, Le ragioni di sistema a fondamento della inapplicabilità analogica dell'art. 521 c.p.p. all'udienza preliminare, in Giust. pen. , 2008.
T. Rafaraci, Le nuove contestazioni nel processo penale, Milano, 1996.