Catullo ed il suo mondo poetico solo apparentemente sembrano lontani dal poter dare apporti significativi alla comprensione di realtà giuridiche; invece proprio perché raccontano sovente momenti di vita vissuta, seppure tra i dotti riferimenti mitologici, i carmi del Veronese possono risultare interessanti anche per il giurista.
Ricordiamo che Gaio Valerio Catullo nacque a Verona intorno all’84 a.C. e morì verso il 54. Era di famiglia nobile, e trascorse quasi tutta la vita a Roma, dove strinse amicizia con i poeti di una nuova corrente letteraria, chiamati “poetae novi“.
Ma soprattutto la vita di Catullo fu pervasa dall’amore bruciante per una donna che egli cantò nei suoi carmi con il nome di Lesbia. Forse era Clodia, moglie di Metello Celere, sorella del tribuno Clodio, nemico politico di Cicerone.
"Grotte di Catullo". Sirmione sul Garda. Resti di un'imponente villa romana. Foto di F.A. Locati, da Wikimedia.
Dal momento che la maggioranza delle poesie catulliane a noi note riguarda l’amore con riferimento alla sua personale vicenda sentimentale, e descrive personaggi ed episodi relativi alla sua vita, si è voluto in esse trovare allusione ad aspetti della società dell’epoca e ricavarne anche elementi giuridici.
E’ successo anche con l’interpretazione del carme 63 (tradotto in italiano e in inglese), uno dei “carmina docta“, nel quale vi è chi ha voluto trovare tracce della funzione del fugitivarius, l’incaricato di scovare e riportare al dominus gli schiavi fuggitivi, proprio nel leone sguinzagliato da Cibele sulle tracce del suo seguace, Attis, che si era autoevirato in un impeto mistico, salvo poi a pentirsene e a fuggire lontano.
La dea, la terribile signora del Dindimo, come Catullo la chiama, aveva appunto liberato i leoni di solito aggiogati al suo carro inviandoli a ricondurre l’infelice sacerdote al suo bosco sacro.
Un’altra poesia che ha suscitato interesse non solo presso i filologi è il carme 67, quello famoso «della porta», uno di quelli non molto frequentati, soprattutto per l’oggettiva difficoltà esplicativa dovuta ad una sofferta tradizione manoscritta.
Partiamo dunque dall’analisi di questa famosa poesia.
Santo Mazzarino in alcuni suoi saggi pubblicati tra il 1964 ed il 1980 ha sostenuto che la poesia «della ianua», appunto, mostra evidente testimonianza di persistenze di diritto celtico nel territorio di Brescia.
Brescia era una città fondata dai Galli Cenòmani, madrepatria della Verona carissima al poeta, città latinizzata dove, invece, è rimasto ben poco delle originarie usanze galliche.
La congettura del grande storico, ancorché geniale, come moltissime delle sue, richiede una verifica accurata, che comporta la lettura ed esegesi della famosa poesia.
O dulci iucunda viro, iucunda parenti,
salve, teque bona Iuppiter auctet ope,
ianua, quam Balbo dicunt servisse benigne
olim, cum sedes ipse senex tenuit,
quamque ferunt rursus nato servisse maligne, 5
postquam es porrecto facta marita sene.
Dic agedum nobis, quare mutata feraris
in dominum veterem deseruisse fidem.
Non (ita Caecilio placeam, cui tradita nunc sum)
culpa mea est, quamquam dicitur esse mea, 10
nec peccatum a me quisquam pote dicere quicquam:
verum isti populo ianua quicque facit,
qui, quacumque aliquid reperitur non bene factum,
ad me omnes clamant: ianua, culpa tua est. 14
O porta, cara al diletto marito, cara al genitore, salve! Che Giove ti colmi del suo sostegno, tu che – si dice – servisti onestamente Balbo, quando il vecchio abitava in questa casa, e poi – dicono – abbia servito disonestamente il figlio, dopo che, lungo disteso (nella bara) il vecchio, sei diventata porta di una casa “sposata” (coè: dove vive una donna sposata). Orsù, facci sapere perché, cambiata, riferiscono che hai abbandonato la lealtà verso l’antico padrone.
«Non è mia la colpa (col perdono di Cecilio, al quale ora sono stata consegnata), benché si affermi che è mia, né qualcuno può dire che io abbia commesso un qualsiasi peccato: ma nell’opinione di questa gente, la porta fa qualunque malefatta; e quando si trova da qualche parte qualcosa che non va bene tutti gridano contro di me: Porta! È colpa tua!».
Non istuc satis est uno te dicere verbo. 15
sed facere ut quivis sentiat et videat.
Qui possum? nemo quaerit nec scire laborat.
Nos volumus: nobis dicere ne dubita.
Primum igitur, virgo quod fertur tradita nobis,
falsum est. Non illam vir prior attigerit, 20
languidior tenera cui pendens sicula beta
numquam se mediam sustulit ad tunicam;
sed pater illius gnati violasse cubile
dicitur et miseram conscelerasse domum,
sive quod impia mens caeco flagrabat amore, 25
seu quod iners sterili semine natus erat,
ut quaerendum unde foret nervosius illud,
quod posset zonam solvere virgineam. 28
Egregium narras, mira pietate, parentem,
qui ipse sui gnati minxerit in gremium. 30
Atqui non solum hoc dicit se cognitum habere
Non basta che tu parli con una sola parola, ma devi fare in modo che ognuno intenda e veda.
« Che posso fare? Nessuno chiede né si affanna per sapere! »
Io voglio sapere: non temere di confidarti.
«Prima di tutto, se si dice che lei mi sia stata consegnata vergine, è falso. Non può averla toccata per primo il marito, con quello spadino più moscio di una bietola lessa, che non gli ha mai sollevato la tunica; ma il padre si dice che abbia violato il letto del figlio e disonorato la disgraziata casa: o perché il suo animo vizioso bruciava di insana passione, o perché, essendo il figlio impotente e sterile, si doveva trovare qualcosa di più vigoroso che potesse sciogliere la cintura della vergine».
Brixia Cycneae supposita speculae,
flavus quam molli percurrit flumine Mella,
Brixia Veronae mater amata meae,
sed de Postumio et Corneli narrat amore, 35
cum quibus illa malum fecit adulterium.
Dixerit hic aliquis: quid? “tu istaec, ianua, nosti,
cui numquam domini limine abesse licet,
nec populum auscultare, sed hic suffixa tigillo
tantum operire soles aut aperire domum?” 40
Saepe illam audivi furtiva voce loquentem
Solam cum ancillis haec sua flagitia,
nomine dicentem quos diximus, utpote quae mi
speraret nec linguam esse nec auriculam.
praeterea addebat quendam, quem dicere nolo 45
nomine, ne tollat rubra supercilia.
Longus homo est, magnas cui lites intulit olim
falsum mendaci ventre puerperium. 48
Mi narri di un genitore dall’ammirevole pietas, che ha pisciato nel grembo di suo figlio!
«Ma Brescia non sa solo questo, Brescia, posta sotto il castello chineo, che il biondo Mella percorre con molle corrente, Brescia, amata madre della mia Verona, ma parla dell’amore di Postumio e di Cornelio, con i quali la donna commise svergognato adulterio».
Qui qualcuno dirà: «Tu, porta, sai queste cose, tu che non puoi spostarti dalla soglia del padrone né ascoltare la gente, ma qui fissata al cardine sei solita chiudere o aprire la casa? »
«Spesso ho udito la padrona, da sola, parlare con le schiave a bassa voce di queste sue scelleratezze, nominava quelli che ho detto, convinta che non avessi né lingua né orecchie. E aggiungeva anche di un altro, del quale non voglio fare il nome, perché non aggrotti le sue rosse sopracciglia. E’ alto, ed una volta subì un processo famoso per una falsa gravidanza, a causa di una prole fittizia».
Conviene riassumere il contenuto del carme, per quanto lo stato del testo lo consenta, con particolare attenzione almeno per quei versi che appaiono più significativi per il discorso che andiamo svolgendo.
Un viandante (da alcuni, probabilmente a torto, identificato con lo stesso poeta), saluta secondo gli stilemi del paraclausityron (lamento davanti alla porta dell’amata) la porta di una casa veronese, porta che servì onestamente Balbo, quando il vecchio abitava in questa casa, e poi – dicono – abbia servito disonestamente (maligne) il figlio, dopo che, morto il vecchio, era diventata «porta maritale» (porta di una casa sposata – marita -, cioè dove vive una donnna sposata; secondo altri, meno probabilmente, porta «adultera»).
Il viandante invita la porta a narrare i motivi di tale cambiamento.
La porta si discolpa, sostenendo che, benché tutti la accusino, è innocente. Il viandante insiste perché la porta parli, ed essa comincia col dire che quando gli sposi si erano trasferiti da Brescia a Verona, poiché tutti sapevano che il marito era impotente erano convinti che la sposa fosse arrivata vergine nella nuova casa: la porta afferma che questo non è vero, perché il suocero aveva provveduto a fare le veci del marito «o perché il suo animo vizioso bruciasse di insana passione, o perché, essendo il figlio impotente e sterile, si doveva trovare qualcosa di più vigoroso che potesse sciogliere la cintura della vergine».
Il viandante commenta sarcasticamente la straordinaria pietas del padre, e la porta (per altri, meno bene, ancora il viandante) ribatte che Brescia sa bene queste cose, e sa anche di svergognati adulterii con Postumio e Cornelio.
Alla domanda del viandante di come abbia potuto essere informata su fatti avvenuti a Brescia, mentre la porta è a Verona, questa risponde che ha sentito la donna parlarne spesso con le ancillae e aggiungeva anche di un altro amante, che dev’essere noto ai lettori, del quale, quindi, non viene fatto il nome, ma la descrizione è talmente precisa che poteva essere facilmente identificato, con i capelli rossi, alto, che una volta ebbe noie con la giustizia a causa di una falsa gravidanza.
Mazzarino, uno dei più autorevoli e stimati storici del secolo scorso, ha sostenuto che a Verona, città, fondata dalla mater Brixia, di Celti cenomani, non c’è identità di usanze con quelle della madrepatria, perché la moglie non è considerata tale a Brescia, finché il padre del marito non muore.
La ianua diventa «marita» (maritale) solo dopo la morte del vecchio Balbo. L’opinione pubblica di Verona pensava che la donna fosse ancora virgo quando era entrata nella ianua della casa di Verona, perché il matrimonio bresciano era come se non esistesse. Per i veronesi il matrimonio ha inizio solo dopo la morte del padre, a Verona, con l’ingresso del figlio come pater familias nella casa veronese: la sposa era creduta virgo, in quanto il matrimonio si pensava fosse avvenuto con l’ingresso nella casa veronese dei coniugi.
Se il matrimonio fosse stato valido a Brescia i veronesi non avrebbero potuto ignorarlo.
Mazzarino spiega questa contraddizione sostenendo che per i Bresciani, saldamente legati alle tradizioni celtiche, benché avessero avuto la latinità nell’89, l’autorità forte del pater familias tipica dei Celti faceva sì che il figlio non fosse considerato unito in matrimonio legittimo finché il padre era ancora vivo.
Quindi le risposte un po’ sibilline che la porta fornisce al viandante che la interroga sarebbero comprensibili solo con la conservazione di elementi di diritto familiare celtico nella città di Brescia, tradizioni che invece a Verona, più romanizzata, non si sono mantenute, risultando quelle di Brescia usanze indecifrabili per i Veronesi.
Per rafforzare la sua interpretazione del carme catulliano, lo storico siciliano si rifà ad un famoso passo delle Istituzioni di Gaio, 1.55, ed ad alcuni luoghi del de bello Gallico cesariano: il luogo gaiano rientra fra quelli nei quali il giurista fa esemplificazioni riguardanti il diritto di altri popoli (come 1.193, le norme in vigore presso i Bitini):
Item in potestate nostra sunt liberi nostri, quos iustis nuptiis procreavimus. Quod ius proprium civium Romanorum est (fere enim nulli alii sunt homines, qui talem in filios suos habent potestatem, qualem nos habemus) idque divi Hadriani edicto, quod proposuit de his, qui sibi liberisque suis ab eo civitatem Romanam petebant, significatur.
Nec me praeterit Galatarum gentem credere in potestate parentum liberos esse. La traduzione italiana del passo gaiano è la seguente:
Istituzioni di Gaio 1.55. Ugualmente sono soggetti alla nostra potestà i nostri figli, che abbiamo procreato da legittime nozze. E questo diritto è proprio dei cittadini romani (difficilmente ci sono altri uomini che abbiano un tale potere sui loro figli, quale abbiamo noi), e questo lo ha espresso il divino Adriano, in un editto emanato riguardo a coloro che gli chiedevano la cittadinanza romana per sé e per i loro figli. Non mi sfugge che la gente Galata crede che i figli siano in potestà dei genitori.
Sembra semplicemente evidenziare che presso i Galati d’Asia minore i figli – i liberi – sono in potestate del pater familias.
Il passo va letto in parallelo con Caes. b.G. 6.19.3, nel quale Cesare, nel raccontare le usanze matrimoniali dei Galli, nota che viri in uxores sicuti in liberos vitae necisque habent potestatem (… i mariti hanno potere di vita e di morte sulle mogli come sui figli…).
1. Gli schiavi in Grecia e a Roma, linee generali
2. Cenni sulla giurisprudenza romana
3. Emptio-venditio, caratteristiche e vizi della cosa oggetto di compravendita
4. Le vendite di schiavi nell'editto edilizio e nei documenti della prassi
5. Il trasferimento della proprietà con particolare riguardo agli schiavi
7. Considerazioni su D. 21.2.39.1, stipulatio duplae e traditio
8. Schiavi “ordinari” e “servi vicarii”: loro posizione giuridica
9. Le azioni “adiecticiae qualitatis”
10. Aspetti particolari della dipendenza: i gladiatori
11. Terminologia della “corruptio servi” e fattispecie connesse
12. Il concorso di azioni tra Lex Aquilia e Lex Cornelia (parte prima)
13. Il concorso di azioni tra Lex Aquilia e Lex Cornelia (parte seconda)
14. Il concorso di azioni tra Lex Aquilia e Lex Cornelia (parte terza)
15. Diritto celtico e poteri del 'paterfamilias' in un carme di Catullo: analisi del carme 67
16. Diritto celtico e poteri del 'paterfamilias' in un carme di Catullo: proposte interpretative