L’analisi compiuta dal Miglietta sul testo di Ulpiano, lo porta a concludere che esso non solo è genuino, ma soprattutto attesta che il giurista severiano aveva introdotto il principio del concorso cumulativo in materia di mezzi di tutela in base alle leges Aquilia e Cornelia de sicariis.
Tale affermazione viene prospettata, secondo l’a., da Ulpiano attraverso due ipotesi, la prima concernente un caso di omicidio che per una causa esimente non può essere sanzionato; la seconda l’uccisione di un fur (servus), nel caso in cui le circostanze di fatto abbiano ingenerato nell’autore della caedes (uccisione) il timore di essere a sua volta ucciso.
Se il responsabile pur potendo solo fermare il ladro lo ha ucciso deliberatamente, potrà avere luogo anche il iudicium publicum (oltre all’azione ex lege Aquilia).
Dunque, conclude Miglietta, Ulpiano e Paolo sostenevano soluzioni diverse, e la diversità non si puo superare con l’ipotesi dell’interpolazione, anche se è ammissibile un rimaneggiamento (peraltro non sostanziale) del passo paolino.
Paolo aveva accolto l’idea secondo la quale era sufficiente a tutelare il soggetto leso dall’atto illecito l’esperimento del giudizio privato, poiché la legge Aquilia dava la reintegrazione patrimoniale, e l’esercizio dell’actio relativa ostacolava la successiva proponibilità del giudizio ex lege Cornelia (quindi, per Paolo si realizzava un concorso elettivo).
Ulpiano, invece, sembra aver proposto una soluzione innovativa avanzando l’ipotesi che l’esperimento dell’actio ex lege Aquilia non impediva la proponibilità del iudicium publicum.
L’a. esamina una costituzione di Gordiano III (CI. 3.35.3 del 241 d.C.) avente ad oggetto l’uccisione di un’ancilla, che a suo parere sembra voler risolvere una controversia aperta al loro tempo da Ulpiano e Paolo, piuttosto che ribadire una soluzione già consolidata, infatti l’espressione non ambigitur eliminerebbe i dubbi attribuendo al dominus ancillae caesae «tanto» (tam) l’actio ex lege Aquilia, con evidente funzione risarcitoria, «quanto» (quam) il iudicium publicum.
Testo Latino: CI. 3.35.3. Imperator Gordianus. Ex morte ancillae, quam caesam conquestus es, tam legis Aquiliae damni sarciendi gratia actionem quam criminalem accusationem adversus obnoxium competere posse non ambigitur. Gord. A. Dolenti. A 241 PP. V K. April. Gordiano A. II et Pompeiano conss.
Codice Giustiniano 3.35.3. L’imperatore Gordiano Augusto a Dolente. Per la morte di una schiava che lamenti essere stata uccisa, non si dubita che tu possa esperire, per ottenere il risarcimento del danno, tanto l’azione in forza della legge Aquilia quanto l’accusa criminale contro il colpevole. 28 marzo del 241. (traduzione di F. Reduzzi).
Quindi, in D.9.2.23.9 e D.48.1.4 l’oggetto del praeiudicium è il iudicium (publicum). Se, come appare più verosimile all’a., i due passi furono inseriti con riferimento alla preclusione, i giustinianei avevano inutilmente reso le cose più complicate. L’a. richiama l’attenzione sul fatto che i due brani fanno parte di masse diverse, quello di Ulpiano della massa edittale, il paolino di quella sabiniana: la discrepanza si potrebbe attribuire al mancato coordinamento tra le sottocommissioni.
Però – sottolinea – è necessario tener presente che i Digesta furono una raccolta di ‘ius controversum‘: solo inserendo i Digesti stessi nell’ambito della Compilazione giustinianea si può individuare la ragione per cui i compilatori lasciarono le diverse opinioni di Paolo e Ulpiano sul praeiudicium nei rapporti tra lex Aquilia e lex Cornelia de sicariis.
Si deve guardare al principio contenuto in D. 48.1.4 coerente, per l’a., con la struttura dell’actio legis Aquiliae, che aveva natura «penale afflittiva», ma acquisì in periodo classico un’«eterogenesi di funzione» che l’ha avvicinata alla natura risarcitoria (o reipersecutoria). Non c’è stata, dunque, una trasformazione completa dell’actio legis Aquiliae, in quanto questa mantenne il carattere di actio poenalis, ma andò affermandosi l’idea di una sua funzione «anche non penale» .
La ratio della diversa impostazione di Ulpiano e Paolo è per Miglietta da ritrovarsi nel fatto che «solamente l’actio legis Aquiliae ottiene il soddisfacimento ‘penale e risarcitorio’ in favore del proprietario dello schiavo ucciso». Il iudicium publicum, invece, prende in considerazione il riflesso «psicologico» sul suo dominus dell’uccisione dello schiavo: è un elemento esterno alla logica dell’istituto aquiliano. Per questo Paolo ritiene che si debba negare il concorso cumulativo; ovvero Ulpiano, secondo l’a., dava rilievo al valore che lo schiavo aveva anche «psicologicamente» per il padrone; Paolo, invece, rimaneva ancorato al sistema della legge Aquilia.
La differenza con il pensiero di Ulpiano si deduce anche da un passo di Paolo riportato in D. 9.2.33 pr.-1 (2 ad Plaut.), da leggere con D. 35.2.63 pr. (2 ad l. Iul. et Pap.). Vi sono esposti due responsa in cui si richiama Pedio; se Paolo, in tema di actio legis Aquiliae, partiva dal presupposto che le «affectiones» non dovevano entrare nella valutazione dell’aestimatio, è impensabile che potesse concepire una considerazione del valore affettivo tale da giustificare la concessione del iudicium ex lege Cornelia e giungere al cumulo dei due strumenti giuridici. Paolo non negava la possibilità per il dominus di agire ex lege Cornelia, se il suo ‘affetto’ per lo schiavo gli facesse ritenere inutile qualsiasi riparazione patrimoniale. Il giurista, infatti, affronta il problema dell’uccisione di uno schiavo che era un figlio naturale del dominus, nato dal suo rapporto con una schiava (propria o altrui).
È chiaro che in questo caso poco importava una reintegrazione patrimoniale; quindi la scelta di non ammettere il cumulo si giustifica coerentemente con l’impostazione secondo cui nel concetto di aestimatio Paolo non ritiene debbano rientrare le ‘affectiones‘.
Il confronto con D. 7.7.6.2 (Ulpiano, 55 ad ed.), che non tocca però il problema dell’aestimatio servi occisi ( stima – del valore – dello schiavo ucciso) ai fini della lex Aquilia, quanto piuttosto il «quanti condemnetur adsertor (in libertatem)» (Item voluptatis vel affectionis aestimatio non habebitur veluti si dilexerit eum dominus aut in deliciis habuerit …), mostra che la soluzione ulpianea esclude che si possano stimare la voluptas o l’affectio.
Mentre per l’aestimatio ai fini della lex Aquilia Ulpiano probabilmente non escludeva il rilievo delle affectiones, in quanto elemento «damni», nel caso dell’adsertor in libertatem tale aspetto non poteva essere valutato, perché «non degno di rilievo se non quale semplice ‘elemento interno’ ai rapporti personali ‘dominus-servus‘»
Il III capitolo, «Conferme ed approfondimenti del pensiero di Ulpiano desumibili da D. 47.10.7.1 e da D. 19.5.14.1» (pp. 281-351), si apre con l’analisi di un tormentato passo di Ulpiano, D. 47.10.7.1 (56 ad ed.), in tema di iniuria, che affronta sia l’ipotesi dell’uccisione dello schiavo sia il praeiudicium tra giudizio civile e criminale. Giustamente l’a. ribadisce che, in questo come in altri casi, è opportuno per comprendere il passo avvalersi della collocazione palingenetica e contestualizzante; lo collega al principium, dove si introduce la trattazione ulpianea dell’editto de iniuriis; avvalendosi di indicazioni provenienti da un testo di Paolo tramandato nella Collatio (2.6.4-4) sulla necessità di «certum dicere» per cogliere l’entità dell’iniuria, l’a. esamina i paragrafi pr.-5 dell’ulpianeo D. 47.10.7; dopo approfondita analisi giunge a concludere che il commento di Ulpiano mostrava un percorso evolutivo di tipo storico-giuridico circa il legittimato ad agere iniuriarum sia iure civili che per il diritto criminale.
Miglietta riprende infine D. 47.10.7.1, passo generalmente interpretato come avente ad oggetto l’uccisione di uno schiavo altrui compiuta allo scopo di arrecare iniuria al proprietario (interpretazione avanzata anche da Accursio); il concorso si può avere solo se il legittimato attivo a proporre l’actio iniuriarum era ancora vivo. Secondo l’a. è il dominus dello schiavo che poteva esperire quell’actio, se lo schiavo era stato ucciso per arrecare a lui ‘contumelia‘ (offesa, oltraggio), dunque, il riferimento di cui si discute è alla lex Cornelia de sicariis. In D. 47.10.7.1, poi, vi è un secondo caso riguardante – come sembra – l’ipotesi in cui sia stato dato veleno ad uno schiavo. Il giurista chiede se il pretore non debba permettere che un giudizio privato (l’actio iniuriarum) sia di pregiudizio al iudicium publicum ex lege Cornelia e dà una risposta negativa, prospettando una soluzione che soddisfa un maggior senso di giustizia ’sostanziale’, a parere dell’a., ammettendo il cumulo di azioni «a condizione che l’actio privata riguardi fattispecie non direttamente coinvolte dalla persecutio publica».
Ecco il testo di D. 47.10.7.1:
Si dicatur homo iniuria occisus, numquid non debeat permittere praetor privato iudicio legi Corneliae praeiudicari? Idemque et si ita quis agere velit “quod tu venenum dedisti hominis occidendi causa?” rectius igitur fecerit, si huiusmodi actionem non dederit. Adquin solemus dicere, ex quibus causis publica sunt iudicia, ex his causis non esse nos prohibendos, quo minus et privato agamus. Est hoc verum, sed ubi non principaliter de ea re agitur, quae habet publicam exsecutionem. Quid ergo de lege Aquilia dicimus? Nam et ea actio principaliter hoc continet, hominem occisum non principaliter: nam ibi principaliter de damno agitur, quod domino datum est, at in actione iniuriarum de ipsa caede vel veneno ut vindicetur, non ut damnum sarciatur. Quid ergo, si quis idcirco velit iniuriarum agere, quod gladio caput eius percussum est? Labeo ait non esse prohibendum: neque enim utique hoc, inquit, intenditur, quod publicam habet animadversionem. Quod verum non est: cui enim dubium est etiam hunc dici posse Cornelia conveniri?
1. Gli schiavi in Grecia e a Roma, linee generali
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13. Il concorso di azioni tra Lex Aquilia e Lex Cornelia (parte seconda)
14. Il concorso di azioni tra Lex Aquilia e Lex Cornelia (parte terza)
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