Tradizionalmente la crisi della famiglia si è consumata nella esclusiva prospettiva della relazione coniugale, che poi si è riflessa sulla tenuta della comunità familiare.
Più di recente, mentre si accrescono le tensioni della coppia, anche la relazione genitori-figli incontra molte ragioni di incomprensioni. Sullo sfondo rimane la progressiva esaltazione della libertà affettiva, con la connessa erosione del dovere di solidarietà nei confronti della comunità realizzata: è un profilo del generale dilemma, dai mutevoli equilibri, tra libertà e responsabilità.
Anche le tecniche e le misure di soluzione delle controversie sono orientate ad una protezione incisiva dell’interesse del minore, secondo peraltro un trend normativo che tende alla specificazione dell’azione di protezione dei minori (affidata ai servizi socio-sanitari) e la tutela giurisdizionale dei diritti (rimessa all’autorità giudiziaria), quale deriva dalla Convenzione Onu di New York del 20 novembre 1980 sui diritti del fanciullo (ratificata e resa esecutiva con L. 27 maggio 1991, n. 176) e dalla Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77).
Gli istituti che tipicamente segnano il dissolvimento giuridico del rapporto coniugale sono la separazione personale dei coniugi (come separazione consensuale e come separazione giudiziale) e il divorzio (quale scioglimento del matrimonio e quale cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso).
Un dato è ormai acquisito alla normativa in materia: la condotta tenuta dai coniugi durante la vita coniugale non influenza più la pronunzia di separazione o di divorzio, ma incide solo su alcuni profili di carattere patrimoniale: atteggiandosi la comunità familiare quale formazione sociale ove si svolge la personalità dei suoi membri (ex art. 2 Cost.), il venire meno della comunione affettiva (spirituale e materiale) giustifica il dissolvimento della comunità familiare per non realizzare più questa la funzione che le è propria.
Massima
In materia di separazione tra i coniugi, ai fini dell’accertamento dell’addebito, è rilevante il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio posto in essere da un coniuge, benché tollerato negli anni dall’altro; tuttavia, seppure la tolleranza non sia una “esimente oggettiva”, può essere espressione di una sostanziale cessazione dell’ “affectio coniugalis” e quindi della conversione del matrimonio in una protratta convivenza meramente formale, con la conseguenza dell’esclusione della rilevanza del comportamento in violazione, ai fini della valutazione di cui all’art.151, secondo comma, cod. civ.
Massima
In tema di separazione personale dei coniugi, l’abbandono della casa familiare, di per sè costituisce violazione di un obbligo matrimoniale, non essendo decisiva la prova della asserita esistenza di una relazione extraconiugale in costanza di matrimonio. Ne consegue che il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sè sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all’impossibilità della convivenza, salvo che si provi – e l’onere incombe a chi ha posto in essere l’abbandono – che esso è stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto.
1. Il diritto privato tra realtà nazionale e esperienza europea
2. Crisi della famiglia fondata sul matrimonio (separazione e divorzio)
3. Convivenze more uxorio e unioni civili
4. Proprietà e consegna nei contratti traslativi
6. Le nozioni giuridiche di “consumatore” e “professionista”
Corte di Cassazione, Sezione I civile, 20 settembre 2007, n. 19450
Corte di Cassazione, Sezione I civile, 3 agosto 2007, n. 17056