La pressione influisce sulla formazione di soot, nel senso che all’aumentare di essa cresce anche la concentrazione di soot nei prodotti della combustione. Il motivo è duplice.
Il primo è che l’aumento di pressione aumenta i limiti di infiammabilità, per cui una condizione di miscela troppo ricca (e quindi non infiammabile) a pressione atmosferica, può diventare infiammabile ad una pressione maggiore, con maggiori probabilità di formazione del soot.
Il secondo motivo è che all’aumentare della pressione viene inibita l’evaporazione del combustibile liquido (propedeutica alla combustione), così come la volatilizzazione delle componenti volatili dai combustibili solidi, a tutto vantaggio della produzione di soot.
Per quanto concerne la dipendenza dalla temperatura, la formazione di soot aumenta e poi diminuisce, presentando quindi un punto di massimo, al variare di T. La ragione di tale massimo è che per temperature basse la formazione di soot non viene attivata, mentre ad alte temperature il soot viene più facilmente ossidato, cioè si forma ma viene anche “distrutto”.
La simulazione di tale del meccanismo di ossidazione è stata modellizzata da vari studiosi. Tra i vari modelli proposti, la formula semi-empirica di Nagle e Strickland-Constable fornisce sicuramente dei buoni risultati. Tale modello individua due zone delle particelle di soot che vengono attaccate dall’ossigeno: una zona più reattiva che produce ossidi e una meno reattiva.
In ogni caso la quantità di soot che si ritrova nei gas esausti è minore di quella che si forma nel processo di combustione, in quanto una quota parte viene ossidata e quindi eliminata durante la fase conclusiva del processo stesso di combustione.
L’ossidazione della fuliggine rappresenta un sistema di abbattimento primario in quanto tende ad eliminare il particolato solido carbonioso nella stessa zona in cui si forma, vale a dire in quella di fiamma.
La rimozione del particolato a valle di tale zona rientra invece nelle tecniche secondarie e riguarda la rimozione del particolato in generale, vale a dire di tutte le particelle solide trasportate dai fumi, includendo in queste anche il soot. Tali inquinanti vengono indicati con il termine anglosassone “particulate matter” (PM). Spesso si sente parlare di pm10 o pm2,5: can tali termini si intendono le particelle con diametro al di sotto rispettivamente di 10 e 2,5 micron
Le tecniche disponibili si differenziano a seconda delle dimensioni delle particelle da captare, divevendo ovviamente più complesse al diminuire delle dimensioni medie del particolato che possono variare dalle decine di micron a qualche nanometro.
Al diminuire delle dimensioni di particelle si adottano le camere a deposizione, i cicloni, i filtri a maniche, gli elettrofiltri e infine gli scrubber.
Degli scrubber si parlerà nella lezione dedicata alla desolforazione.
Le camere a deposizione sono dei dispositivi disposti orizzontalmente, di forma rettangolare e allungata, nei quali, sfruttando l’effetto della forza di gravità sull’azione di trascinamento del flusso d’aria, si ottiene la deposizione delle particelle inquinanti sul fondo, in apposite tramogge.
Separatore centrifugo di grosse dimensioni. Immagine da Wikimedia commons
I flitri a maniche consentono l’abbattimento di particelle anche dell’ordine di qualche micron. Il loro funzionamento si fonda sul passaggio della corrente gassosa attraverso degli elementi filtranti che possono essere disposti a pannello, a cartuccia o a tasca, ma spesso presentano una forma cilindrica per cui si parla sovente di sacche o di maniche.
Tali filtri incorrono in problemi di intasamento delle fibre, riscontrabile con un aumento della perdita di carico connessa al loro attraversamento. Tale problematica si acuisce quando i filtri lavorano a bassa temperatura , consentando la condensazione dei vapori presenti nei fumi, che intasa ulteriormente la fibra.
In ogni caso i filtri vanno periodicamente puliti per garantire una non eccessiva perdita di carico e un efficiente filtrazione. Alcuni di essi vengono puliti per scuotimento delle maniche, altri con l’inversione dl flusso, per rimuovere agevolmente tutte le particelle intrappolate nelle fibre.
Rappresentazione schematica di un filtro a maniche. Immagine da Wikimedia commons
Gli elettrofiltri, detti ache precipitatori elettrostatici, si basano sul passaggio della corrente gassosa da depurare, attraverso un intenso capo elettrico che ha l’effetto di caricare positivamente o negativamente le particelle solide. Successivamente esse vengono quindi catturate da piastre metalliche cariche di segno opposto.
Gli elettrofiltri consentono la cattura di particelle di granulometria molto ridotta, con efficienze anche del 99 % . Inoltre, non opponendo alcuna resistena meccanica al flusso, come accade per i filtri am manica, essi presentano modeste perdite di carico.
La potenza elettrica richiesta è altrettanto modesta, essendo pari a 1 kW per ogni 10.000 m3/h di flusso trattato. Tuttavia, a causa dei grossi ingombri richiesti dalle basse velocità di attraversamento, tali filtri presentano elevati costi i installazione e manutenzione.
Schema di precipitatore elettrostatico. Immagine da Wikimedia commons
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