In una precedente lezione, laddove l’intenzione è stata quella di sviluppare il tema del rapporto uomo/macchina, s’è fatto cenno al tema della “progettualità” dell’uomo quale distensione della sua effettiva apprensione del mondo al fine di garantire – all’uomo stesso – un grado, un indice più alto segnatamente al suo statuto persistentivo.
Ovvero, garanzia di presenza e permanenza nella sua situazione esistenziale.
Ovvero, garanzia di presenza e permanenza nella sua situazione di essere vivente.
Nel senso, ultimo, di “vizio” di determinazione a continuare ad essere.
Per entrare meglio nella questione, per scioglierne le determinazioni essenziali della questione che, giocoforza, ha a che fare in senso stretto con il tema della sopravvivenza, conviene seguire alcune indicazioni di Elias Canetti.
Se, infatti, il problema è quello di cercare di inquadrare l’umano, la sua composita condizione, non è possibile non costatare che “c’è una netta tendenza a buttarsi verso le cose più lontane, subito” anche se, è giusto sottolineare, che “lo slancio del gesto di partire, l’audacia avventurosa delle spedizioni in terra remota, ingannano circa le loro motivazioni”.
Elias Canetti (1905-1994). Immagine da: Inszenierung
Non di rado si tratta semplicemente di evitare quanto ci sta dappresso, poiché non siamo all’altezza di affrontarlo. Ne avvertiamo la pericolosità e preferiamo aver a che fare con altri pericoli di ignota entità. Anche quando ci imbattiamo in questi ultimi, e accade puntualmente, essi posseggono pur sempre il brillio delle cose improvvise e uniche. Solo una persona molto limitata potrebbe condannare questa qualità avventurosa dello spirito, sebbene essa derivi talvolta da palese debolezza.
Quale, allora, questa debolezza che, avventura dello spirito, “ci ha condotto a un ampliamento del nostro orizzonte”?
Riferimenti:
E. Canetti, Macht und Überleben (1972), trad. it. di F. Jesi, Potere e sopravvivenza, in Id., Potere e sopravvivenza. Saggi, Milano, Adelphi, 2004 (8a ed.), pp. 13-37, in particolar modo citata, p. 13.
Indubitabilmente, la tensione al permanere, al persistere. Il sopravvivere, così come lo individua il Canetti stesso, ovvero “come la situazione centrale del potere”. Un qualcosa che “non è solo spietato, [...] qualcosa di concreto: una situazione ben delimitata, inconfondibile. L’uomo – infatti – non crede mai del tutto alla morte finché non l’ha sperimentata”.
Il sopravvivere, il persistere è, dunque, ciò che anzitutto e per lo più fa la condizione umana. Il persistere quale per-existere, il per-essere è ciò che fa la condizione umana, ciò che è la condizione umana. Tale per-existere quale per-essere è innanzitutto tempo. È questo tempo qui di ogni singola condizione nel suo affanno di persistenza, tensione e trazione a buttare se stessi un attimo più in là.
Riferimenti:
Ivi, p. 16.
Immagine da: Corso di informatica
È il mio tempo, il tuo tempo, il nostro tempo nell’affanno della debolezza (che non vuol dire necessariamente debolezza bio-fisica nella feroce lotta per la sopravvivenza dell’animale-uomo con gli altri animali) che, matrice dell’ampliamento del nostro orizzonte, esplica se stessa nella ininterrotta e ininterrompibile (perché irrefrenabile) forza e tensione per-existentiva anche in direzione dell’ignoto minaccioso, contaminazione/approssimazione/coniugazione/fagocitazione con/sul/del mondo (della biosfera in cui è inserito) di questa stessa singola condizione qua.
È il fatto del sopravvivere, del da-essere, dunque, che è in questione.
Il per-existere è sforzo d’essere, di permanenza nell’essere: angoscia e inquietudine d’essere.
La sopravvivenza, questa per-existenza quale angoscia e inquietudine profonda d’essere, di continuare a tutti i costi ad essere, è indice di rinsaldamento ontologico a partire dalla trasfusione/ibridazione/manipolazione/assoggettamento ontico, dell’ontico. E questo è processo storico, cioè diverso di tempo in tempo, da tempo a tempo. Per questo, si potrebbe azzardare, condizione umana è una sorta di “storica ontologia”.
La condizione umana è un’ontologia storicizzabile di volta in volta, a seconda delle diverse, complesse e vaste strategie della trasfusione/ibridazione/manipolazione/assoggettamento ontico, dell’ontico. E qui, in questo scenario di ontologie storicizzabili non valgono né le formule hegeliane, né tanto meno heideggeriane: l’essere non si risolve nel tempo, né il tempo si risolve nell’essere né, dunque, l’essere “è” tempo.
Ma l’essere “è”, di volta in volta, concettualmente costruito nel e dal tempo.
L’uomo è, alla fine dei conti, niente altro che sforzo d’essere, un conatus essendi che esplica se stesso nel tempo alla ricerca di un sovrappiù di tempo.
Affanno senza soluzione di continuità, giacché qualsiasi arresto potrebbe segnare l’interruzione della sua stessa avventura esistenziale.
Un conatus che apprende il mondo, che fagocita in altri termini la sfera di ciò che lo circonda, al fine estremo della permanenza a tutti i costi.
E ciò è fatto, come s’è detto, anche per il tramite della progettazione/fabbricazione di cui prima.
Se le cose stanno così, si rende necessario rivolgere nuovamente lo sguardo alle macchine, per coglierne fino in fondo la loro “valenza” intrinseca ed estrinseca.
2. Bioetica e sue definizioni - Parte prima
3. Bioetica e sue definizioni - Parte seconda
4. Bioetica: sapere senza statuto epistemologico
6. Homo faber, homo creator, homo materia
8. Lo statuto (presunto) delle macchine
9. Dall'"utensile" alla falsificazione
10. Morte dell'uomo della metafisica - Parte prima
11. Morte dell'uomo della metafisica - Parte seconda
12. Nascita del giusnaturalismo
13. Il giusnaturalismo compiuto nell'ordine suo
14. La crisi e la fine del giusnaturalismo
15. La condizione dell'uomo e/o le condizioni dell'umano
16. Dal “sistema aperto” all'ibridazione
17. Dalla fantascienza alla scienza
18. Neo-umanesimo dell'a-essere (I parte)