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Giuseppe Cacciatore » 2.M. Heidegger, la lettera sull'umanismo: l'etica originaria


Storia editoriale della Lettera

La prima stesura della Lettera sull’«umanismo» è lo scritto che Heidegger invia a Jean Beaufret nel 1946 in risposta ad una sua lettera.
Lettre à Jean Beaufret è, infatti, il titolo sotto il quale la versione originale della lettera compare, seppur in forma parziale, per la prima volta nella rivista «Fontaine», corredata da un’introduzione di Beaufret dal titolo Heidegger et le problème de la vérité.
La prima versione della Lettera fu poi rielaborata da Heidegger e pubblicata in appendice alla nuova edizione del suo saggio sulla dottrina platonica della verità, uscita nella collana fondata da Ernesto Grassi e Wilhelm Szilasi nel 1947. Quest’ultimo dato è importante se si pensa che lo stesso Grassi avrebbe poi scritto un libro dal titolo Heidegger e il problema dell’umanismo, con l’intento di mostrare una linea diversa di umanismo, non ascrivibile alla tradizione “platonizzante” alla quale pensa Heidegger, ma a quella latina che attribuisce alla poesia carattere fondante e che, per ciò stesso, appare più affine al “pensiero della svolta” di quanto lo stesso Heidegger potesse sospettare.
Due anni più tardi, nel 1949, la lettera fu ripubblicata singolarmente con il titolo Über den «Humanismus».

Martin Heidegger. immagine da: Spring time

Martin Heidegger. immagine da: Spring time


La lettera di Beaufret

Nella seconda parte della lettera di Beaufret, la quale si iscrive nella scia aperta dalla conferenza di Sartre L’esistenzialismo è un umanismo, si trovano i nodi tematici, che Heidegger riprende nella sua riflessione sull’umanismo.
In particolare, Beaufret, nell’esprimere il desiderio di «precisare il rapporto dell’ontologia con un’etica possibile», chiede a Heidegger delucidazioni su un passo del §59 di Essere e tempo (riguardante il problema della coscienza in Kant e la teoria dei valori) e su un passaggio de La dottrina platonica della verità, anch’esso relativo alla teoria dei valori.
Inoltre, Beaufret parla esplicitamente delle possibili insidie insite nel pensiero dell’essere, tra cui quella della deriva irrazionalistica. In poche parole, quello che è in gioco è lo scarto tra un pensiero che si vuole antisoggettivistico e la tradizione della metafisica, incapace, secondo Heidegger, di pensare l’essere, ma incapace anche di pensare l’uomo. Spia di tale incapacità è, nell’ottica heideggeriana, lo schiacciamento della possibilità nella necessità, attraverso la declinazione dell’humanitas in animalitas cum ratione.

Le domande di Beaufret

L’irrazionalismo potrebbe essere considerato come un luogo comune interpretativo, apparso già in riferimento all’insegnamento friburghese di Heidegger (1919-1923), cioè negli anni in cui prendeva forma il programma di un’ermeneutica della fatticità.
Al centro dei primi corsi di Friburgo era il problema della storicità e della fatticità della vita, che Heidegger tentava di cogliere a prescindere dalle categorie teoretico-metafisiche tradizionali, considerate inadatte a cogliere il movimento originario della vita stessa nei suoi caratteri genuini.
Eppure, l’intenzione di Heidegger non era quella di contrapporre alla metafisica tradizionale un nuovo irrazionalismo, ma piuttosto cogliere la vita stessa nei suoi tratti propri e originari, liberandola dal fraintendimento teoreticistico che la riduce ad oggetto da osservare e descrivere, a cosa tra cose.
In connessione alla vecchia critica di irrazionalismo, Beaufret formula alcune domande volte a chiarire:

  • la natura del rapporto tra coscienza ed essere
  • la possibilità della comunicazione tra gli uomini a partire dall’essere
  • il modo in cui ridare senso alla parola “umanismo”
Edmund Husserl e Martin Heidegger a Friburgo. Imamgine da: Filosofia e storia

Edmund Husserl e Martin Heidegger a Friburgo. Imamgine da: Filosofia e storia


Nota al testo

Vi è una primissima nota al testo, in cui Heidegger invita il lettore a considerare che quel che si dice nella Lettera deve essere ricondotto ad un cammino iniziato nel 1936 [data della conferenza sul verso di Hölderlin Pieno di merito, ma poeticamente abita/l'uomo su questa terra], nell’attimo di un «tentativo di dire in modo semplice la verità dell’essere».
La semplicità del dire richiede un altro linguaggio, non quello della metafisica, che d’altra parte aveva determinato l’incompiutezza di Essere e tempo, laddove l’omissione della terza sezione della prima parte e di tutta la seconda parte è stata interpretata, ad esempio da Pietro Chiodi (il traduttore italiano), come un’elaborazione silenziosa del “da dire” che ancora non si lascia dire. In poche parole, Heidegger avrebbe scritto la seconda parte non scrivendola.
Data, però, l’impossibilità di prescindere del tutto dal linguaggio della metafisica, la Lettera è, per così dire, un testo sperimentale, una sorta di invenzione, di laboratorio filosofico che parla ancora il linguaggio che sta per superare – il linguaggio dell’uomo – sullo sfondo dell’Altro linguaggio, quello che ancora non si domina perché non si lascia signoreggiare: il linguaggio dell’essere.

L’essenza dell’agire

L’incipit è costituito da un’affermazione negativa che immediatamente getta il lettore in un terreno più radicale rispetto a quello di chi domanda sull’eventuale elaborazione di un’Etica: «Noi non pensiamo ancora in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire» [p. 31]. E non lo facciamo perché assimiliamo l’agire al produrre un effetto più o meno utile, che, in una tale ottica utilitaristica, equivale a più o meno reale.
L’essenza dell’agire, come un fare che compie e non come un produrre un determinato effetto, è l’essenza stessa dell’uomo, che può compiere solo ciò che già è, ovvero un ente a cui nel suo essere ne va del suo essere stesso. Laddove in questa sua costitutiva possibilità di perdersi si radica – vedi Essere e tempo – il suo primato ontologico, la sua dignità di cercante, per cui la sua condotta più propria è il pensiero dell’essere. Il Dasein, in quanto aperto all’essere, è chiamato ad un rapporto essenziale e attivo con il proprio fatto di essere.
Si tratta di un rapporto di senso che è al di qua della distinzione tra teorico e pratico, giacché la comprensione dell’essere in quanto senso è anche l’agire del senso o l’agire come senso.

La Cura e l’etica originaria

Sin dalle prime battute, diventa chiaro lo statuto ontologico di quella che, ben lungi dall’essere un’etica mancata o un’etica del tramonto, si delinea come un’«etica originaria», che è anche in grado di “esibire i certificati di nascita” delle etiche storicamente date.
Il concetto a partire dal quale diviene possibile rinvenire le ragioni che determinano in Heidegger non solo il rifiuto, ma anche la genealogia dell’interpretazione ordinaria della coscienza, del linguaggio e dell’etica è quello della Cura.
Quella che in Essere e tempo appariva come la cifra dell’essere dell’Esserci, della sua temporalità estatica, del suo essere fuori di sé nella forma dell’apertura verso l’essere, verso l’essere in generale e verso l’essere dell’ente, sia di quello conforme che di quello difforme da esso, ricompare con forza sin dalle prime pagine della Lettera sull’umanismo.

Dedica autografa di M. Heidegger sulla copia personale di E. Husserl di “Sein und Zeit” (1926). Immagine da: Boston University

Dedica autografa di M. Heidegger sulla copia personale di E. Husserl di “Sein und Zeit” (1926). Immagine da: Boston University


“Il davanti a che” della Cura

Nel §40 di Essere e tempo [La situazione emotiva fondamentale dell'angoscia come apertura caratteristica dell'Esserci], una volta ribadita la cooriginarietà degli esistenziali situazione affettiva [Befindlichkeit] e comprensione [Verstehen], Heidegger passava poi a specificare la differenza tra paura e angoscia in riferimento al loro rispettivo “davanti a che”.
Paura: il suo “davanti a che” è sempre un ente intramondano proveniente da un determinato ambiente, un ente vicino, prossimo, nocivo ed evitabile.
Angoscia: il suo “davanti a che” non è mai un ente intramondano, ma l’essere nel mondo come tale.

Dalla differenziazione di questi due “davanti a che” scaturisce il dualismo di ciò che è minaccioso.
Nel “davanti a che” della paura, la minaccia ha i caratteri di un danno possibile ad opera del minacciato in vista di un particolare e determinato poter-essere.
Nel “davanti a che” dell’angoscia si rivela il «nulla e in nessun luogo», non la minacciosità di un ente determinato, ma la sua insignificatività.

“Davanti a che” e “per-che” della Cura

L’angoscia è sia davanti all’essere-nel-mondo che per l’essere-nel-mondo.
Un davanti e un per il nulla, il nulla dello sprofondamento delle possibilità e dei significati del mondo e del con-Esserci degli altri.
Nell’angoscia, l’Esserci viene strappato dallo stato deiettivo, ovvero quello stato in cui si comprende a partire dal mondo e dall’anonimato delle opinioni pubbliche.
Il davanti al nulla si trasforma nel per il nulla, nel momento in cui l’Esserci viene gettato nel suo autentico-poter-essere-nel-mondo, ovvero nel momento in cui egli assume la propria gettatezza. Allora, quella originaria spaesatezza, quel suo e intrasferibile non sentirsi più a casa nel mondo, gli appare più originario di qualsiasi “davanti a che” della paura.
La paura quindi è un’angoscia deietta nel mondo, inautentica e dissimulata.
L’angoscia rivela all’Esserci l’autenticità [Eigentlichkeit] e l’inautenticità [Un-eigentlichkeit] come possibilità del suo essere, senza l’intrusione dell’ente intramondano, ovvero come ciò che gli è proprio e come ciò che gli è improprio.

L’originarietà della Cura

La Cura è l’essere dell’Esserci, ciò che rappresenta la sua unità e totalità.
La Cura si situa non solo prima della paura, ma prima di ogni comportamento e di ogni situazione dell’Esserci. Anche prima della differenziazione dei comportamenti e delle situazioni, degli atteggiamenti e delle decisioni, persino degli atti particolari e delle tendenze (volere, desiderare, impulso, inclinazione, ecc.).
Perciò la Cura non può introdurre il primato del comportamento pratico rispetto a quello teoretico. Al punto che Heidegger può affermare [Essere e tempo §41] che «la determinazione puramente intuitiva di una semplice-presenza ha il carattere della Cura non meno di un’azione politica o di un semplice divertimento ricreativo. “Teoria” e “prassi” sono possibilità dell’essere di un ente il cui essere deve essere determinato come cura».

La Favola della Cura

La favola della Cura del poeta Igino, prima di arrivare a Heidegger, passa per Herder, poi per Goethe e infine per Burdach che scrive appunto Faust und die Sorge.
I personaggi della favola sono quattro: Cura, Giove, Terra e Saturno.
Cura trova del fango e gli dà una forma.
Giove gli infonde lo spirito.
Entrambi vogliono dare il proprio nome al fango dotato di forma e di spirito.
Ad un certo momento interviene la Terra, anch’essa rivendicando il diritto di dare il proprio nome a ciò che è fatto con una parte del proprio corpo.
I disputanti (Cura, Giove e Terra) eleggono Saturno a giudice che così sentenzia: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possiede la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)».

Il senso della favola e il doppio significato di Cura

L’uomo, finché è nel mondo, non è abbandonato dalla sua origine (la Cura), che è anche la sua forma.
Il nome (homo) gli è dato non in vista del suo essere, ma in base a ciò di cui consiste (humus).
La decisione sul suo essere spetta al tempo (Saturno).
Burdach mostra il doppio significato del termine Cura:

  • pena angosciosa
  • premura, devozione

Questi due significati del termine vengono da Heidegger ricondotti alla duplicità della struttura dell’Esserci come progetto gettato.
Il prendersi cura degli utilizzabili e l’aver cura degli enti affini (gli altri uomini), come manifestazioni della deiezione, rinviano alla Cura, come situazione affettiva fondamentale, ovvero come angosciosa presa d’atto da parte dell’Esserci dell’infondatezza del proprio essere.

Le obiezioni alla Cura

Nel §59 di Essere e tempo [L'interpretazione esistenziale della coscienza e l'interpretazione ordinaria della coscienza], Heidegger si era già preoccupato di farsi carico delle obiezioni che l’interpretazione ordinaria della coscienza avrebbe potuto opporre alla sua interpretazione della coscienza come risveglio della Cura all’esserci colpevole.
Tali obbiezioni sono sintetizzabili come segue:

  • la coscienza ha essenzialmente funzione critica
  • la coscienza parla sempre di una determinata azione compiuta o voluta
  • la «voce» non è esperita in un riferimento così netto all’essere dell’Esserci
  • l’interpretazione non tiene alcun conto delle forme fondamentali del fenomeno, cioè della coscienza «cattiva» e della «buona», della «rimproverante» e della «ammonente»

Cura e colpevolezza

Heidegger inizia smontando la quarta obiezione, attraverso un capovolgimento che solo apparentemente è di indole cronologica, giacché riguarda il ripensamento radicale dell’essere e del tempo. E così, chiamata, azione compiuta e colpa non sono eventi della semplice presenza, non sono dei semplici accadimenti ordinabili secondo un criterio lineare e univoco di causalità, ma le articolazioni della Cura, ovvero dell’essere dell’Esserci, il cui senso è giustappunto la temporalità estatica.
È in questo contesto che la chiamata della coscienza può essere intesa non come il ricordo di una colpa passata ma come un “chiamare innanzi”. Un chiamare innanzi, che, però, è anche un chiamare indietro, verso la gettatezza e quindi verso l’infondatezza dell’Esserci, sicché la colpevolezza segue la chiamata anziché precederla.
Per quel che riguarda “la coscienza buona”, essa sarebbe l’esperienza della non chiamata, e pertanto un oblio di coscienza, mentre “la coscienza ammonente”, da Heidegger identificata nell’accezione kantiana del “tribunale della coscienza”, farebbe le veci di giudice o consigliere con il quale si tratta o si disputa.

I materiali di supporto della lezione

Testi di M. Heidegger:

Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (Semestre estivo 1925), ed. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova, 1999.

Essere e tempo (1927), ed. it. a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976.

Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine (Semestre invernale 1929-30), ed. it. a cura di C. Angelino, 2005.

L'essenza della verità (1930), ed. it. a cura di U. Galimberti, La Scuola, Brescia, 1974.

Saggi e discorsi (1936-1953), ed. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1991.

Sentieri interrotti (1935-46), ed. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze, 1999.

Lettera sull'«umanismo» (1976), ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1995.

L'arte e lo spazio (1969), tr. it. di G. Vattimo, introd. di C. Angelino, Il melangolo, Genova, 1979.

Testi dei critici di Heidegger

R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio (1931), ed. it. a cura di A. Pasquinelli, in Il neoemprismo, Utet, Torino, 1969, pp. 504-540.

K. Löwit, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1974.

Th. W. Adorno, Il gergo dell'autenticità: sull'ideologia tedesca (1964), Einaudi, Torino, 1989.

Bibliografia secondaria essenziale

E. Mazzarella, Tecnica e Metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli, 1982.

J.-L. Nancy, L'etica originaria, ed. it. a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 1996.

A. Guigliano, Nietzsche-Rickert-Heidegger. E altre allegorie filosofiche, Liguori, Napoli, 1999.

F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2005.

G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008.

Approfondimento

Glossario Heidegger

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