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Giuseppe Cacciatore » 12.L'Umanesimo critico e aperto


Umanesimo e filologia

L’umanesimo aperto e critico di Said si confronta, grazie agli strumenti offerti dalla filologia, con la realtà del proprio tempo, realtà magmatica, processuale, discontinua, non facilmente frazionabile in unità isolate e contrapposte. Evocando ancora Vico, si può dire che la filologia è una disciplina a vocazione antiessenzialistica, adatta per comprendere la complessità del reale grazie alla sua forza interpretativa. In una Degnità della Scienza nuova Vico distingue la filosofia, che contempla la ragione, da cui deriva la scienza del vero, dalla filologia, che considera l’autorità delle scelte umane, su cui si fonda la coscienza del certo. Filologi sono stati «tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’ popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, i commerzi» (Scienza nuova del 1744, cit., § 139, p. 498). La contrapposizione di vero e certo è la messa in discussione della metafisica tradizionale che pretende di determinare il reale con il concetto razionale – così come oggi le posizioni essenzialistiche hanno la pretesa di circoscrivere e fissare l’identità delle culture – mentre, come scrive Grassi (G. B. Vico filosofo “epocale”, in Id., Vico e l’umanesimo, Milano, Guerini e Associati, 1992, pp. 193-211), Vico guarda in direzione del “manifestarsi” sempre nuovo del reale, dello svelarsi del reale nella storia.

Lo sguardo umanistico su un mondo diasporico

Rielaborando l’eredità vichiana e gramsciana, Said giunge a interpretare l’umanesimo come una forma di resistenza alle idee veicolate dalla tradizione e che, come sostiene anche in Le mutevoli basi dello studio e della pratica umanistici (Umanesimo e critica democratica), si contrappone a ogni sorta di luogo comune e di linguaggio acritico. Oggi è messa in discussione – e qui deve innestarsi la forza critica dell’umanesimo – l’idea della letteratura come sfera che offre esperienze essenzialmente intime, private, meditative, rarefatte, non direttamente accessibili al pubblico. Nel mondo contemporaneo si assiste ad una nuova e intensa circolazione tra sfera privata e sfera pubblica in modo tale che l’una compenetra l’altra e la modifica. Qui Said cita Arjun Appadurai, secondo il quale oggi le migrazioni di massa, volontarie o involontarie, si affiancano al rapido fluire delle immagini diffuse dai media, producendo «un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività moderne» (Modernità in polvere, trad. it., Roma, Meltemi, 2001, p. 17). In un mondo dove «immagini in movimento [...] incrociano spettatori deterritorializzati», si producono «sfere pubbliche diasporiche» (Ibid.): così le persone e le immagini si sovrappongono in modo spesso imprevedibile «al di là delle certezze domestiche e del cordone sanitario degli effetti mediatici locali e nazionali» (Ivi, p. 18).

Ridimensionamento

Se in passato le discipline umanistiche studiavano testi permeati di cultura greca, latina ed ebraica, oggi si va formando un pubblico nuovo, multiculturale, che chiede e ottiene maggior attenzione per figure e culture precedentemente ignorate o inascoltate e ora sempre più presenti in quegli spazi un tempo occupati dalle culture occidentali. Gli stessi privilegi attribuiti a entità come l’antica Grecia o Israele sono stati ridimensionati nell’ambito di un processo di revisione che ha positivamente ridotto le loro pretese di originalità: nell’uno e nell’altro caso è stato dimostrato che la loro storia e la loro cultura sono inestricabilmente legate a quelle di popoli africani e semitici.

 

Il mutamento della prospettiva umanistica

La fine della Guerra fredda si è accompagnata a una serie di trasformazioni che sono rispecchiate nelle battaglie culturali degli anni ‘80 e ‘90: in particolare vanno ricordati la lotta contro la guerra e la segregazione all’interno e il sollevarsi in ogni angolo del mondo di voci di dissenso in campo storico, antropologico, nella ricerca femminista e delle minoranze e in genere nei settori marginali rispetto ai filoni principali delle discipline umanistiche e delle scienze sociali. «Tutto ciò ha contribuito al lento, sismico mutamento della prospettiva umanistica» (Umanesimo e critica democratica, cit., p. 72). A riguardo Said propone un esempio per chiarire il processo di cambiamento di cui parla. Gli studi afro-americani, nuovo ambito degli studi umanistici – a dire il vero vergognosamente ostacolati o marginalizzati – hanno, da un lato, messo in discussione gli stereotipi e l’ipocrisia latente dell’universalismo veicolato dal classico pensiero umanistico eurocentrico; dall’altro lato, si sono imposti come componente fondamentale dell’umanesimo americano contemporaneo. Tali cambiamenti hanno messo in luce come la tradizione umanistica e la vecchia idea di umanesimo si fondassero su una concezione dell’identità nazionale che era certamente selettiva e riduttiva, limitata cioè ad un minuscolo gruppo di individui considerato presuntivamente rappresentativo dell’intera società.

Cultura e barbarie

L’intera idea di umanesimo proliferata e alimentata per secoli in vasti strati della cultura euro-atlantica aveva in realtà a lungo fatto a meno dei contributi degli afro-americani, delle donne e di tutti i gruppi e le comunità svantaggiati, messi in ombra o volutamente marginalizzati. Tener conto di ampi segmenti della società trascurati e oscurati dalle élites politico-culturali dominanti avrebbe significato rappresentare più fedelmente l’incessante flusso (e anche la violenza che talvolta lo permea) dei fenomeni dell’immigrazione e del multiculturalismo americani. Nel contesto del secondo scritto raccolto in Umanesimo e critica democratica Said ricorda che nel 1992, anno dei festeggiamenti per i cinquecento anni dello sbarco di Colombo, questo evento offrì l’occasione per una discussione sui suoi effetti e sulle atroci devastazioni da esso innescate. Queste discussioni sono state messe sotto accusa da alcuni umanisti conservatori poiché violerebbero la santità di un sedicente ambito spirituale. In realtà, nota Said, non ci si dovrebbe dimenticare di una profonda tesi di Benjamin: «[...] tutto il patrimonio culturale [...] non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie» (W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus novus, trad. it., Torino, Einaudi, 1995, p. 79).

La critica: cuore pulsante dell’umanesimo

Agli studi umanistici viene chiesto oggi di prendere in esame tutto quello che, da una prospettiva tradizionale eurocentrica, era stato messo in disparte, represso o deliberatamente marginalizzato. Dopo aver celebrato per decenni i padri fondatori americani e altre figure nazionali, oggi in alcuni ambiti si comincia a guardare a questa storia in modo più disincantato, a portarne alla luce anche i lati oscuri, dimenticati o mai considerati: infatti si presta attenzione alle implicazioni di questi personaggi con la schiavitù, con l’eliminazione dei nativi americani e con lo sfruttamento delle donne e delle popolazioni senza terra. Prendere in considerazione le forze e le correnti culturali non europee, decentrate e decolonizzate, significa allora riconoscere che «la critica è il cuore pulsante dell’umanesimo» (Umanesimo e critica democratica, cit., p. 74). L’attitudine critica va qui intesa, spiega Said, come forma di libertà democratica e incessante attività non solo di accumulazione ma anche di interrogazione del sapere, che si rivolge alle realtà storiche che articolano il mondo dopo l’89. Questo lavoro può essere continuato e migliorato nella misura in cui si impara a intendere la pratica umanistica come componente integrante e funzionale del mondo contemporaneo e non come un ornamento più o meno inutile o come un esercizio di nostalgica rievocazione del passato.

Identità culturali e tradizioni

La nostra società, scrive Said avendo in mente innanzitutto il contesto statunitense, non può essere stilizzata e semplificata ignorandone le molteplici forze che hanno agito nella storia da cui scaturisce. La sua identità storica e culturale, se si vuol far uso di questa espressione, non può essere ricondotta ad una tradizione, una razza o una religione. Del resto, anche paesi come l’Italia o la Svezia, apparentemente omogenei da molti secoli, sono ora incessantemente modificati da grandi ondate di migranti, espatriati e rifugiati. In realtà queste figure sono la realtà umana più importante del nostro tempo in ogni angolo del mondo, senza dimenticare che essi hanno rappresentato il dato demografico e culturale originario degli Stati Uniti. Questo grande fenomeno dei nostri tempi mette fuori causa ogni pretesa di autenticità e autoctonia originaria delle tradizioni culturali native ovvero di purezza delle identità culturali: si tratta di una ideologia palesemente falsa e non fondata, fuorviante e fondamentalista. Di fronte ai molteplici, irreversibili processi di mescolamento dei popoli, dobbiamo per forza ammettere – sostiene Said – che siamo tutti degli outsider e, in misura minore, anche degli insider: ognuno appartiene a qualche tradizione e nello stesso tempo è un outsider rispetto a un’altra tradizione, e nessuna di queste tradizioni è scevra di contaminazioni culturali.

Interazioni pacifiche

Consapevole che le migrazioni e la mescolanza di uomini e culture costituiscono un fatto incontrovertibile che segna fortemente e drammaticamente – considerando la sorte di molti migranti – il nostro tempo, l’umanista, secondo Said (che si riferisce particolarmente al contesto americano), deve rendere disponibili tutte le differenti tradizioni, o almeno la maggior parte di esse, e interrogare il rapporto che ciascuna ha con le altre allo scopo di mostrare come – in particolare negli Stati Uniti, ma questo discorso saidiano può essere esteso certamente anche all’Europa e agli altri continenti – molte tradizioni abbiano interagito e possano continuare a relazionarsi tra loro pacificamente.

Identità e storicità

L’umanista deve oggi rendersi consapevole, secondo Said, della non omogeneità delle culture, della loro pluralità interna, della complessità e non linearità delle loro storie, mettendo in questione le concezioni forti, essenzialisitche dell’identità culturale. Cogliere le contraddizioni e le voci discordanti all’interno di un determinato filone culturale significa anche fare attenzione alle contaminazioni interculturali che hanno marcato e contrassegnano certamente ancora oggi i rapporti tra comunità e popoli. A riguardo, è interessante segnalare come sia stato Stuart Hall, figura chiave dei Cultural Studies, giamaicano trapiantato giovanissimo in Inghilterra, a porsi nel solco tracciato da Edward Said e ad approfondire questa problematica mettendo l’accento sul carattere ibrido, storico e complesso delle identità: «[...] le identità non sono mai unificate e [...] nella tarda modernità, sono sempre più frammentate e spezzate, mai costrutti regolari bensì multipli a causa di discorsi, pratiche sociali e posizioni diverse, spesso intersecantesi e antagoniste. Le identità sono soggette a una storicizzazione radicale, e si collocano costantemente all’interno di un processo di cambiamento e trasformazione» (Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, trad. it., Roma, Meltemi, 2006, p. 133).

I materiali di supporto della lezione

Approfondimento

Bibliografia di riferimento

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