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Nicola Russo » 22.Autonormatività e metanormatività


Nomonomia e thesmothesia

Carl Schmitt, riprendendo alcuni costrutti di νόμος, che vengono tradotti come dominio di (dominio del padre, del re, persiano), conclude. «se veramente ci fosse un “dominio del nomos” nel senso del “dominio di leggi astratte” dovrebbe esistere anche il sostantivo nomonomia che invece naturalmente non esiste». Il giurista, impegnato nel tentativo di una comprensione radicale dell’antica parola nomos dilaniata dalle traduzioni non solo nelle lingue moderne (si pensi al Gesetz tedesco, su cui oltre), ma anche in quella latina (che dispone di jus e lex e ancora, sin dall’alto medioevo, directum), guarda con tagliente sguardo critico alla temperie positivista che comprende non solo la scienza giuridica ma anche le scienze naturali, ove la connessione tra “ordinamento e localizzazione” sarebbe stata soppressa in una peculiare versione della misurazione. E siamo così tornati al nostro tema principale: che cosa significa domandarsi circa la legge come formazione scientifica a partire dal Cratilo platonico? Sarebbe già la domanda mal posta, implicando una sovrapposizione tra νόμος e legge, e tra legge ed oggetto scientifico? E sarebbe mal posta proprio perché si attenderebbe così solo «alla funzione misurabile e non alla sostanza»? Perché si starebbe seguendo un percorso nomonomico, ovvero di definizione del nomos, in quanto definizione di una definizione o nomos di un nomos?

Nomonomia e meta-normatività

La domanda circa la definizione di nomos è quindi già in se stessa richiesta di una meta-definizione, pretesa di una meta-norma, invocazione di una prima e formale norma regolativa ovvero di uno schema di un principio di istruzioni per l’uso? È già in se stessa fallace perché nomonomica? Individuiamo qui un ulteriore fronte del possibile dialogo tra il Socrate del Cratilo ed i suoi anacronistici interlocutori contemporanei; e cioè: quanti modi vi sono di porre una questione riflessiva (o retroattiva) sul nomos? Non è in se stessa la νομοθεσία, in quanto facoltà politica del diritto, autodirettiva o autonormativa, secondo il Platone delle Leggi? Il percorso che qui bisognerebbe intraprendere parte dall’assumere la definitoria metagiuridicità del nomos (ovvero la metanormatività della norma) così come si può ritrovare già nel Cratilo platonico ed appellare in quest’ottica le risposte “neo-positivistiche” di Kelsen e Schlick: il punto non sarebbe dunque quello dello scadimento del nomos a misura, ma del tragitto che compie il concetto di misura sino al pensiero filosofico e scientifico contemporaneo. I due viennesi sono convocabili al tavolo socratico non già solo in quanto varianti dell’anti-naturalismo riguardo alla definizione di legge, ma anche – e per quanto detto soprattutto – come ipotesi sulla ricorsività della definizione di nomos.

Nomos basileus

Dobbiamo a questo punto adempiere ad un’anticipazione fatta all’inizio del nostro discorso sulla nozione greca di nomos: la comprensione del frammento pindarico in cui si afferma la peculiare regalità del nomos. Lo faremo, però, come abbiamo già indicato, solo per interposizione, solo attraverso gli opposti riflessi che quelle righe ebbero nella Grecità classica: ovvero mediante una breve lettura delle Storie di Erodoto e del Gorgia di Platone. Nel Frammento 169, 1, di Pindaro si legge:

Νόμος ὀ πάντων βασιλεύς
θνατῶν τε καί ἀθανάτων
ἄγει δικαιῶν τό βιαιότατον
ὐπερτάτα χειρί

In traduzione sarebbe: il nomos è re di tutte le cose, di quelle mortali e di quelle immortali; [e ciò perchè] riesce a rendere giusto ciò che è più violento grazie alla sua mano suprema. ὐπερτάτα χειρί, intende con una mano che si impone su tutte le cose, che tutto afferra dall’alto. Il prosieguo del frammento racconta di come Eracle s’impadroní delle vacche di Gerione «senza chiederle e senza acquistarle», ed il suo incipit illustra appunto l’ordine in cui una tale azione si svolse (si veda in proposito il volume che Marcello Gigante scrisse oramai nel 1956, titolato appunto Νόμος βασιλεύς, rist., Napoli, Bibliopolis, 1996).

L’interpretazione di Erodoto

Tanto ambiguo poteva essere il significato del frammento, che opposte interpretazioni se ne diedero, tra le quali esemplari paiono quelle di Erodoto, nel terzo libro delle Storie, che si denota come relativistica e che intende nomos come consuetudine, e quella di Platone nel Gorgia, 484 a-c, segnata invece in senso (gius-)naturalistico, assumendo nomos come legge di natura. Erodoto, Storie, III, 18, 1-4: «Per me è del tutto evidente che Cambise divenne preda di una violenta follia: altrimenti non si sarebbe messo a schernire le cose sacre e le tradizioni (νομαίοισι). Infatti, se si proponesse a tutti gli uomini di scegliere, tra tutte, le usanze migliori (νόμων), ciascuno dopo un’attenta riflessione indicherebbe le proprie: a tal punto ognuno è convinto (νομίζουισι) che i propri costumi (νόμους) siano di gran lunga i migliori. Perciò non è naturale (οἰκός), tranne che per un pazzo, prendersi gioco di cose simili. Che tutti gli uomini la pensino (nenom…kasi) così riguardo alle tradizioni (νόμος) lo si può ricavare da molte prove [...]. Tanto potenti sono le usanze: e a me sembra che avesse ragione Pindaro quando affermava che “la consuetudine è regina di tutte le cose” (νόμον πάντων βασιλέα)».

L’interpretazione di Platone

Platone, Gorgia, 484 a-c; Callicle: «Io penso che se solo nascesse un uomo dotato di una natura che ne fosse all’altezza, costui, scrollatosi di dosso, fatte a pezzi e sfuggito a tutte queste cose, clapestati in nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi , che sono tutte contro natura (γράμματα καί μαγγανεύματα καί ἐπῷδάς νόμους τοὺς παρά φύσι ἄπαντας), così ribellatosi il nostro schiavo si rivelebbe nostro padrone, ed allora splenderebbe il diritto di natura (τό τῆς φύσεως δίκαιον). E mi pare che anche Pindaro esprima le stesse cose che io esprimo, in quel carme dove dice: “la legge di tutti regina mortali e immortali”; ebbene, questa, lui dice, “guida, giustificando l’azione più violenta, con mano potente: lo deduco dalle imprese di Eracle, poiché…senza averle comprate…”; dice press’a poco così perché non so il carme a memoria. In ogni modo, dice che, senza averle comprate e senza che Gerione gliele avesse donate, Eracle portò via le vacche, convinto che questo fosse per natura suo diritto (ὠς τούτου ὄντος τοῦ δικαίου φύσει), e che tanto le vacche quanto le altre cose che sono in mano ai peggiori e ai più deboli appartengono tutte al migliore e al più forte».

Scienza regia e scienza calcolistica

Platone definisce la scienza regia come scienza teoretica e della misura (Pol., 259e 1); per condurre una tale definizione resta da distinguere la scienza regia da altre scienze della misura o della misurazione (cosa che sin qui potrebbe anche essere equivoca e che con la comparazione in esame dovrebbe risultare invece univoca). Qual è la differenza tra la misura della scienza regia e quella del calcolo? È questa una domanda centrale nell’argomentazione platonica e lo ancora di più nelle nostre riflessioni sul nesso legge-misura tra scienze naturali e scienza giuridica. Cosa distingue la misura del calcolo e la misura della legge? Domanda quindi il Forestiero al giovane Socrate, al fine di esplicitare l’articolazione naturale di cui farebbe parte la scienza regia: “il calcolo (λογιστική) non è forse per noi un’arte?” (259e 1); il calcolo infatti “conosce la differenza fra i numeri” ed “esprime un giudizio su ciò che conosce (τά γνγισθένετο κρῖναι)” (259e 5-6).

Federico II, De arte venandis cum avibus, (XIII sec), Biblioteca Vaticana. Fonte: Wikipedia

Federico II, De arte venandis cum avibus, (XIII sec), Biblioteca Vaticana. Fonte: Wikipedia


La scienza regia come arte critica, giudicativa e teoretica

L’attenzione si sposta quindi sulla definizione di un’arte critica, giudicativa e teoretica assieme, che apparentemente dovrebbe accomunare logistica o calcolistica e scienza regia e che invece finirà per servire all’esatto contrario. Il pretesto è offerto dalla questione sulla modalità di giudizio del calcolista su ciò che conosce (la differenza tra i numeri). L’arte del calcolo – quindi assolutamente non la matematica, né la semplice aritmetica, ma la tecnica di fare letteralmente i conti – si divide in due: conoscenza teoretica e capacità di giudizio. Sorge così un’analogia tra un’altra attività che si caratterizza per questa duplicità tra conoscenza e giudizio (analogia che ha come termine esplicito la logistica ed implicito la scienza regia nella sua differenza supposta dalla logistica): quella dell’architetto, che all’opera contribuisce con le sue cognizioni, ovvero il cui compito consiste nel dirigere i lavori (quindi nel giudicare dirigendo) mediante le sue conoscenze (259e 11). Qui tuttavia si ritorna alla calcolistica: «penso però – afferma il Forestiero – che all’architetto non si addica di limitare il suo compito a giudicare, e quindi, liberarsene (ἀπηλλάχθαι) come se n’è liberato chi ha fatto calcoli, ma deve ordinare (προστάττειν) a ciascun operaio il compito che gli spetta finché gli operai non abbiano eseguito il lavoro imposto» (260a 4-6).

Scienza regia ed architettura

La differenza all’interno delle scienze teoretiche e critiche è rappresentata dai due verbi utilizzati per caratterizzare rispettivamente la calcolistica (ἀπαλλάσσω, ovvero svolgere e sbrigare i calcoli) e l’architettura (προστάττειν, ordinare qualcosa a qualcuno). La prima è semplicemente κριτική, giudicativa, e colui che vi si impegna ha la posizione dello spettatore (260c 2), mentre la seconda è invece ἐπιτακτική (260b 3-4), direttiva o dispositiva, e colui che la esercita è piuttosto un δεσποζόντα, uno che possiede il comando. Né risulta corretto comprendere sotto un unico titolo tutte quelle τέχναι τό ἐπιτάττειν ἔχουσιν (260e 4), ovvero tutte quelle arti che comprendono in sé il comando. Lo straniero ne indica alcune che valgono come esempi di indubbia funzione euristica: l’arte dell’interprete, l’arte esortativa, (in senso proprio l’attività di colui che dava l’anda ai rematori delle triremi), l’arte dell’indovino, l’arte dell’araldo, o del banditore. Queste quattro attività rappresentano altrettante operazioni di trasferimento di comandi impropri, ovvero non decisi da colui che possiede ed esercita l’arte di impartirli; e più in particolare configurano altrettanti passaggi di registro in cui il comando si concretizza: quello da una lingua all’altra, quella dall’intenzione all’azione (ovvero dal tempo allo spazio), quello dal divino all’umano e quella tra regnante e suddito o tra due regnanti. Lingua/lingue, umano/divino, intenzione/ azione (o tempo e spazio), regnante/ suddito, configurano quindi quattro specie di transizioni, in cui si dovrebbe assumere l’invarianza del contenuto ed la variazione della forma o della modalità.  

Autonormatività o metanormatività

Il comando, dunque, di cui si tratta nella scienza regia implica un’identificazione della misura che permane nella commisurazione normativa in grazia della medesima opera imperativa del Politico. In ciò dovrebbe consistere l’autonormatività o metanormatività specifica del comando nella scienza regia; e questo stesso dovrebbe ora essere definito con maggiore chiarezza. A questo fine, accanto alle dicotomie già presentate, Platone provvede a distinguere una serie di espressioni verbali per denotare le differenti modalità del comando. Indichiamo, quindi, di seguito i tre verbi che indicano le diverse declinazioni possibili dell’arte direttiva:

  1. ἐπι-τάσσω (ordinare nel senso di passare un ordine, in generale e nello specifico bandire come un araldo o comunicare un decreto come un ambasciatore);
  2. προσ-τάσσω (ordinare, imponendo qualcosa a qualcuno al fine di attuare qualcosa come un architetto);
  3. ἀυτ-επι-τάσσω (ordinare, nel senso di imporre un ordine che parte da se stessi e non per delega, ma anche di controllare il compimento dell’ordine).

Autonormatività o metanormatività (segue)

Solo quest’ultimo denota la scienza regia in quanto ἀυτ-ἐπιτακτική, ovvero auto-direttiva. Orbene, in cosa consiste la retrotrascendenza, il ripiegamento segnalato dall’ἀυτ- preposto all”espressione più semplice del comando, ovvero ἐπι-τάσσω? L’ipotesi che qui si propone (e che già è stata avanzata in maniera implicita) è che il retroriferimento allo stesso (ἀυτ-) sia in definitiva un sovrariferimento alla totalità metrica del normativo, ovvero alla misura originaria di ogni norma derivata e del sistema ordinamentale che può contenerle. Ovvero che l’auto-direttività della scienza regia si converte in auto-normatività e quindi in meta-normatività.

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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