Ermogene: “La giustezza (correttezza, drittezza) del nome è connaturata (nata, fiorita, cresciuta, innata) per natura a ciascuno degli enti” (anche: “conviene per natura”).
Impostando per un tratto del dialogo la sua ricerca come indagine sulla «tecnica di denominazione», Platone acquisisce una prospettiva ulteriore ed esterna a quella che Cratilo ed Ermogene, nonostante la loro opposizione polare, condividono come sfondo e presupposto comune, una prospettiva che gli consente di raffigurare gli interlocutori di Socrate come caricature di loro stessi, esponenti degli esiti estremi di certe concezioni, che erano certamente radicate nel mondo greco e che possiamo ricondurre, tradizionalmente, l’una ai primi presocratici (Cratilo), l’altra ai sofisti (Ermogene).
Cos’è per sé la correttezza dei nomi, prima ancora di coinvolgere gli enti? Ma è davvero possibile non coinvolgere gli enti? Per lo stesso Platone e certo per i primi greci, un nome non è affatto un’entità meramente logico-mentale e strettamente linguistica, bensì sempre ontologica, ossia il nome è sempre nome di un qualcosa (ὄνομα τινoς). E la ὀνóματoς ὀρθóτης non dice che il modo in cui il nome è di una cosa, il modo in cui il nome appartiene alla cosa o la cosa al nome, il modo della coappartenenza tra nome e cosa, ossia, in ultima analisi, tra λóγoς e ὄν. Che un nome sia ὀρθóν, dunque, significa in prima battuta che esso è proprio il nome di quella cosa e non di un’altra. E, al contempo, che quella cosa ha proprio quel nome e non un altro.
Questi sono i due sensi, su di un piano ontologico elementare, della correttezza del nome.
Copia romana di un ritratto di Platone (Glyptothek München). Fonte: Wikipedia
La nominabilità univoca della cosa è ritenuta da Platone condizione della ἐπιστήμη, della scienza teoretica vera, e così della conoscenza in senso autentico. È possibile indagare, parlare e intendersi sulle cose, innanzitutto alla condizione di poterle «individuare». A ciò serve appunto il nome, tramite il quale la cosa si raddoppia nella sua entità e identità: la cosa non è più lo ›kaston vuoto, il qualsiasi privo di determinazioni, né tantomeno è il «questo qui» in prima istanza anonimo delle cose prossime, degli αἰσθητά, ma è un «ente autoidentico».
L’ente autoidentico non è più l’Uno semplice del «questo qui», bensì è lo sdoppiamento, che consente poi l’identificazione come equivalenza, uguaglianza, identità appunto come A=A: lo sdoppiamento tra l’essere della cosa come la sua presenza e l’essere della cosa come la sua essenza. Il segno di uguaglianza, però, tra «questo qui» e, diciamo, il suo «essere un orologio», non è affatto la ripetizione integrale dello stesso, ma in qualche modo l’esplosione della cosa e la sua integrale delocalizzazione, nella misura in cui l’esser-orologio di «questo qui» distacca il «questo qui» dal suo qui «esistentivo» e lo lega alla dimensione delle essenze, che è sempre «altrove», sempre trascendente, come si dice in filosofia. Il raddoppiamento, allora, è costitutivamente alienazione.
Le cose sono sempre meno degli enti che sono, le cose sono sempre meno di quel che sono! E questo è il fio che il λόγος paga, quando vuol dire le cose. In tale contesto, il nome è quell’atto primario del λόγος che precede il giudizio stesso e lo rende possibile, legandolo ai termini di cui il giudizio dice. Ossia: se il giudizio apodittico – che è quello che qui solo ci interessa – dice di una cosa che è una certa cosa, ebbene il nome è il presentarsi di tale cosa e del suo essere, della sua essenza, entro il λόγος. La cosa si fa innanzi al λόγος quando viene chiamata. Questo chiamare le cose, allora, che è la denominazione, è propriamente evocarle affinché facciano ingresso nel λόγος, compaiano di fronte al νοῦς e siano ripetibili e comunicabili entro il διάλογος.
In questo contesto, Ermogene e Cratilo dialogano circa la giustezza del nome, sostenendo due tesi differenti in relazione alle differenti ἁρχαί (principi, cause, ragioni) di tale ὀρθóτης della coappartenenza: un nome è il nome giusto di una cosa, ossia il nome e la sua cosa o la cosa e il suo nome si coappartengono, 1) perché tale giustezza è connaturata alla cosa per natura (vi “conviene per natura”); 2) perché lo è per convenzione (συνθήκη καί ὁμολογία, “composizione e accordo”, in una parola “legge”, νόμος).
Accademia platonica, Mosaico pompeiano (1 d.C.). Fonte: Wikipedia
1) Ma cosa pensiamo dicendo che la giustezza è connaturata alla cosa per natura? Che la cosa nasce con il proprio nome, esso concresce con essa, le appartiene intrinsecamente, ogni cosa ha in sé il proprio nome – e non per noi. In questa prima tesi è la cosa il primum, la cosa intesa come unità degli omonimi τὸ ὄν e ἡ οὐσία, l’ente e l’essenza, ai quali il nome appartiene come dotazione naturale, proprietà.
Nella seconda tesi, invece, cui sinora abbiamo solo accennato, ma che tra breve affronteremo per esteso, il primum sarà il νόμος come posizione e assicurazione di una ὁμολογία, la convenzione come accordo e composizione (“ἅν τινες συνθὲμενοι καλεῖν καλῶσι…”, 383 a6). Qui, dunque, è il λόγος come διάλογος e ὁμολογία, come σύνθεσις, ad imporre dall’esterno un nome alla cosa, che di per sé, φύσει, non ha connaturata alcuna ὀρθóτης, correttezza che è invece assicurata solo da quell’atto della comune denominazione.
Platone, dal canto suo, finirà per dire che ogni cosa ha in qualche modo per sé un nome, non il proprio per natura, ma per natura un qualche nome, ossia che è intrinsecamente nominabile e per qualche verso già sempre nominata – il che però andrà confermato, leggendo il testo, nella sua articolazione determinata, rischiando di rimanere così troppo generico.
Rispetto al complesso delle posizioni in gioco entro il dialogo, il riferimento all’ipotesi ontologica serve a completare il quadro delle opzioni teoriche che costantemente si sovrappongono nel discorso che andiamo facendo, e questo al fine di smentire ogni sua apparente unidimensionalità e come invito a tenere sempre presente l’intero e non solo, di volta in volta, il proscenio.
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