Iniziamo dicendo ciò che non faremo in queste lezioni sul significato di nomos:
non esamineremo la differenza classica tra leggi civili e leggi religiose o private, leggi scritte e non scritte, ovvero tra morale e diritto;
non esamineremo la storia del diritto greco, a cui faremo solo qualche breve cenno almeno per restituirne un profilo complessivo sottratto all’opinione per molto tempo invalsa della sua insussistenza (non professionalizzazione dei ruoli giuridici, etc…);
non esamineremo una delle espressioni tipiche dello spirito greco sulla legge ovvero quella espressa da Pindaro, nomos basileus, se non nelle due varianti di Platone nel Gorgia, in senso naturalistico, e di Erodoto nel libro terzo delle Storie, in senso relativistico.
Una delle questioni che sin da subito si pongono nella lettura del Cratilo, e nella peculiare rotazione dell’analogia platonica tra posizione dei nomi e posizione delle leggi rispetto verso un discorso sullo statuto epistemico della legge, riguarda la medesima definizione di νόμος, quindi quella di νομοθέτης infine quella di πρότος νομοθέτης. E ciò in primo luogo per evitare un’insidia già segnalata da Platone – ed avvertita da buona parte della letteratura più recente e non solo – consistente nell’omologare la summenzionata relazione nei termini di una prossimità etimologica, di cui sarebbe illusorio richiamo proprio il nome di legislatore. N. Demand (The Nomothetes of the Cratylus, in «Phronesis», 20, 2, 1975, pp. 106-109) ne deduce, ad esempio, che la decostruzione platonica del metodo etimologico eracliteo culminerebbe proprio nell’esibizione del termine νομοθέτης, che richiamerebbe solo fittiziamente alla posizione delle leggi: dacché non bisogna conoscere le cose dal loro nome, non si può definire il legislatore come colui che pone le leggi e così il parallelo tra legge e nome cadrebbe come ultima riprova ironica delle fallacie di Cratilo.
Si impone dunque un chiarimento che invece di imboccare la strada delle etimologie, scelga quella della comprensione delle parole in questione mediante il loro uso o meglio i loro usi molteplici e le altrettanto molteplici significazioni. Senza dubbio l’accenno platonico ai primi legislatori, ai legislatori leggendari, ricorre in molti altri dialoghi (almeno, come vedremo, nel Politico, nelle Leggi e nello spurio Minosse) e rappresenta un luogo retorico ricorrente nella cultura greca antica sin dalla sua fase arcaica. Così come il loro atto aveva toni sovraumani, allo stesso modo le vite dei legislatori, e dei racconti che di esse venivano fatti, avevano del semidivino.
Rembrandt, Mosè riceve le tavole della legge (1659). Staatliches Museum, Berlino. Fonte: Wikipedia
Archeologia greca: Da Minosse, a Radamante, suo fratello, a Zaleuco, legislatore dei locresi – il primo, secondo le fonti antiche, ad aver messo per iscritto un codice di leggi attorno al VII secolo a. C. – fino a Licurgo ed oltre, il legislatore delle origini rappresentava una figura di mediazione, qualcuno che riportava o comunicava delle regole di condotta che gli erano state dettate e che a sua volta riferiva, comunicava, trascriveva e per la cui salvaguardia tornava ad affidarsi a quella medesima origine mitica
Archeologia giudaica: Non diversamente, in una cultura pur così distante dalla greca come quella ebraica, il racconto dei parr. 19-22 dell’Esodo di un Mosè ritornante dal Monte con le tavole della legge è prima la giustificazione/consacrazione di una nomotesi, dell’inizio giuridico di una comunità e poi la serratura del patto sacro tra questa medesima comunità e l’invisibile autore delle leggi.
Proviamo ora a definire con maggiore chiarezza il ruolo che può svolgere il nomos – in quanto misura della differenza ottenuta tracciando un solco nel terreno – nella separazione dello spazio sacro da quello profano e quindi nella loro mutua inaugurazione. A questo scopo, consideriamo le acute analisi di Mircea Elide, in Il sacro e il profano (1965; ed. it., Torino, 2008), proprio in virtù del loro proposito di delineare i caratteri dell’esperienza sacra del mondo, in quanto esperienza del mondo reale. Mediante la considerazione dell’esperienza arcaica del mondo e del gesto originario di misurazione della differenza si tenterà quindi di predisporre per le analisi successive un fondo antropologico-filosofico, diciamo pure con Aristotele bio-meccanico, ovvero denotato attraverso l’operazione di produrre artifici necessari alla perimetrazione dello spazio vivibile, cioè biotico, che ha forma di vita umana.
P. Bruegel, Torre di Babele (1563), Kunsthistorisches Museum, Vienna. Fonte: Wikipedia
La differenza tra spazio sacro e spazio profano è quella differenza tra spazio formato, dotato di una forma e di un ordine, e spazio informe e disordinato, quindi tra cosmos e caos. Nella sacralizzazione del mondo vi sarebbe una vera e propria fondazione del Mondo. «La costituzione del mondo nasce dalla spaccatura effettuata nello spazio, attraverso la quale si scopre “il punto fisso”, l’asse centrale di ogni orientamento futuro» (M. Eliade, op. cit., p. 19). La determinazione di un centro di orientamento, riprodotto poi nelle differenti forme culturali e storiche come Axis mundi, presente nella costruzione della dimora famigliare od in quella della comunità pubblica, costituirebbe l’elemento essenziale della sacralizzazione o consacrazione del mondo in quanto cosmizzazione. La sacertà dei limiti o delle soglie (come “luoghi del giudizio”), alla cui custodia erano preposti magistrati o sacerdoti, dimostrerebbe la persistenza dell’ordine e dell’orientamento guadagnato nella ripetizione della consacrazione originaria in ogni opera dell’umano.
Come si vedrà in seguito, nel delimitare l’estensione dell’inabitabile asprezza della nera terra o dei neri flutti, consiste propriamente la fondazione di una città per la cultura greca arcaica, e non solo, quindi per la costituzione di un mondo biotico che deve valere come reale, sotto la minaccia che ben altra realtà, quella della selvatichezza profonda del nulla, si faccia più reale. Fondare una città è porre limite al nulla, al buio, e bandirlo perché non metta in pericolo le mura, ossia l’ordine, l’orientamento, la distinzione e la ripartizione.
Assunta le differenza tra la definizione della santità dei luoghi e quella della loro sacralità – chiaramente espressa nella tradizione del diritto romano – su cui però non potremmo soffermarci oltre (vd. Materiali del Corso), in queste considerazioni circa le culture arcaiche, vi è più di un punto che sollecita la riflessione. Prendiamo almeno due delle questioni che si aprono con tutta evidenza: 1) la differenza tra spazio sacro, spazio giuridico e spazio geometrico, quindi la differenza non solo tra spazio sacro e profano, ma tra spazio sacro e spazio desacralizzato; e 2) il caso del mundus degli antichi romani o della ripartizione, molto più antica, delle terre alluvionali del Nilo in forma di quadrato.
La nascita ancorché mitica di geometria e diritto assieme, così come la racconta Erodoto nelle Storie, consente di pensare una tale coalescenza come derivata da una scoperta ben più antica, ovvero quella del limite. Nella sua narrazione – storica, geografica ed etnografica assieme – dell’Egitto antico, come paese del contrario, delle invenzioni di tecniche e culti, Erodoto [Storie, II, 109, 1-3] si diffonde sulla scoperta della geometria 8e della sua funzione giuridica) nel modo che segue: «Questo re [Sesostri III, della XII dinastia, 1878-1842 a. C.] divise il territorio del paese tra tutti gli Egiziani, assegnando a ciascuno un lotto uguale agli altri, di forma quadrata; in base a tale ripartizione fissò le entrate, imponendo il pagamento di un tributo annuo. Se il fiume strappava a qualcuno una parte del suo lotto, questi si recava dal re e gli segnalava l’accaduto; il re allora inviava dei funzionari a controllare e a misurare di quanto fosse ridotto il terreno, affinché il futuro proprietario pagasse un’imposta diminuita in proporzione. A mio parere, è questo che ha portato alla scoperta della geometria, che poi è stata introdotta in Grecia».
I funzionari-sacerdoti addetti alla misurazione dei campi (agrimensori) erano chiamati ἀρπεδονάπται, ovvero “coloro che annodavano e tiravano le corde”; questo medesimo termine passerà poi in Democrito anche con l’accezione di saggi, filosofi. Democrito si vanta (VI 168 B), infatti di aver tra i suoi contemporanei, «errato per la più gran parte della terra, indagando le cose più lontane; e vidi il maggior numero di cieli e di paesi, ed ascoltai i più degli uomini dotti, e nella composizione delle linee con dimostrazione nessuno mi superò, neanche i cosiddetti Arpedonapti d’Egitto».
Il diritto e la geometria sembrano così nascere assieme con la nozione di limite, di confine e di definizione; «la definizione della forma precisa implica la proprietà di essa, per la geometria quelle del quadrato o del rombo, per il diritto il proprietario: uno solo è il termine, una l’operazione su cui si radica il pensiero analitico, da cui si dipartono due rami, il diritto e la scienza» (ibidem). Ed una tale genealogia sarebbe ancora testimoniata dalla parola egizia Ma’at che identificherebbe una divinità o meglio un elemento primordiale che sta per verità, diritto, morale, misura, ordine, giustizia e giustezza; divinità o elemento primordiale che fa il paio con Thot, padre della scrittura, della sapienza e delle matematiche (in Platone, Teeteto). Ma l’opera propria della misura, che dall’imposizione e dalla salvaguardia di un limite nasce (per salvaguardia del limite si intenda la sua custodia, il suo ripristino da parte dell’agrimensore magistrato e sacerdote, ma anche il vigore della sua permanenza nel mutamento), consiste nel «riportare il differente al medesimo» (ivi, p. 76). Per ora fermiamoci qui – tenendo a mente quest’ultima definizione – e passiamo alla seconda questione.
Il mundus designa il punto zero dell’orientamento nel quale viene definita la cinta muraria originaria della città di Roma; nella medesima indicazione di un tale punto si compie la sua duplicazione originaria, quella tra il suo posto e la sua posizione, tra la sua datità ed il suo carattere di dato; questo implica la moltiplicazione delle dimensioni in cui la fossa originaria si viene a trovare:
Se è vero quindi che la ricerca etimologica e storica del significato di mundus comporta insuperabili difficoltà ed innumerevoli ipotesi, compresa l’evocativa derivazione varroniana (De lingua latina, 6. 3) da movere o motus (vd. Ovidio, Fasti, 820: sacra palis suberant: inde movetur opus), o rimontando addirittura alla radice ittita *mew-d ed indicando pertanto una pratica rituale di purificazione, ovvero l’abluzione, possiamo assumere al fine della nostra riflessione un quadro semantico in cui mundus sia: il punto centrale a partire dal quale è possibile dividere, assegnare, valutare, ordinare, il segno cavo che incide la terra (ovvero, semplicemente il suolo) trasformandolo in mondo, in terra ordinata, scavata, arata, elaborata, purificata. In questo senso, mundus ancora più che a kosmos, si avvicinerebbe proprio a nomos.
Dagli esempi proposti, all’interno della più ampia disamina su che cosa è il nomos, dovrebbe risultare che è proprio la divisione – il solco tracciato o la corda tesa degli arpedonapti egiziani o i limites delle colonie romane o ancora il mundus evocato nella leggenda di Romolo – ad essere originaria della distinzione pre-giuridica e pre-religiosa ed in questo senso santa tra sacro e profano. È perciò che il margine, il confine o la soglia vengono custoditi da un magistrato-sacerdote. Quel limite, o quella figura chiusa e regolare (il quadrato, tanto per i romani, quanto per gli egizi, quanto per Ippodamo di Mileto, leggendario urbanista), è ciò che rende costante la correlazione e le misurazioni possibili, è ciò che riporta il differente al medesimo, ovvero lo rende differente sempre allo stesso modo, in quanto differente. Questa traduzione – che non nega la mutevolezza, anzi si impone perché la si possa intendere – consente la nascita dell’ontologia geometrica e giuridica (su questo si veda A. Schiavone, Jus. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005), come determinazione di fattispecie essenzialmente invarianti o di figure essenziali.
Una tale origine differenziante nel nomos è a rigore ancora presente nella traduzione luterana della Heilige Schrift, della sacra scrittura, fonte linguistica del tedesco moderno. Tornando infatti ai medesimi paragrafi dell’Esodo, da cui questa digressione ha preso le mosse, nella versione volgare di Lutero una tale molteplicità è riferita nei tre termini Gesetze, Gebote e Rechte, rispettivamente riferiti alle leggi in generale, ai comandamenti e quindi alle regola civili derivanti. A prova di quanto detto, gli stessi termini definiscono tuttora negli ordinamenti germanici l”intera ampiezza semantica del diritto.
Si noti, infine, il modo in cui una fonte tardo-antica dà conto della legislazione ebraica in lingua greca: mi riferisco al trattato Sul sublime, in cui lo Pseudo-Longino, dopo una citazione omerica dall’Iliade, cita l’episodio biblico come esempio di gesta di un uomo non ordinario, Mosè [IX, 9]. L’autore definisce Mosè come ὀ Ἰουδαίων θεσμοθέτης, come tesmoteta e non nomoteta, pur riferendo al profeta º e„sbol» tîn nÒmwn, ovvero l’esordio (l’irruzione, l’ingresso repentino) delle leggi.
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