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Nicola Russo » 23.Misura e legge


I modi della misura

Nel Politico, Platone si giunge a definire l’arte del misurare, in una delle cui specie dovrebbe definirsi propriamente la scienza regia (283d 1). Si può misurare o «ponendo in reciproci rapporti di grandezza e piccolezza», oppure seguendo «l’essenza necessaria della loro [del grande e del piccolo] genesi » (283d 7-9). Tale definizione introduce ad una delle più acute analisi platoniche del concetto di misura e della medesima arte del misurare; rileva quindi intenderne il significato. L’opposizione che viene presentata implica ovviamente un riferimento al retroterra eracliteo della correlazione universale, che tuttavia in questo caso viene assunto nella declinazione sofistica della relatività delle grandezze; dall’altro capo si invoca il ricorso ad una teoria delle idee che, come nel Cratilo, viene richiamata con molta parsimonia. Qui l’ἄτομον εἄδος, la forma eidetica indivisibile, minima, della misura è data dall’essenza necessaria nella generazione continua e multiforme del minimo e del massimo, della loro temporalità e della loro varietà: mediante la necessità eidetica genesi ed essenza non corrono in direzioni opposte, ma la seconda fluisce identica nella prima, come la stabilità d’essenza nella distesa fluttuante dei cambiamenti. Né l’una né l’altra è autenticamente la misura, né genesi (o misurazione, pur non potendone fare a meno per venire alla presenza) né essenza, ma necessità eidetica che identifica o rispecchia, duplicandola, l’una nell’altra.

Legislazione e scienza regia

Proseguendo nella lettura del Politico giungiamo alla seguente affermazione messa sulle labbra del Forestiero: «Da un certo punto di vista è senza dubbio chiaro che la legislazione (νομοτηετικώ) appartiene all’arte regia; eppure la cosa migliore non è che le leggi abbiano vigore, ma piuttosto l’uomo che si intende veramente di governo, che vive ragionevolmente (metà phroneseos), l’uomo regio!» (Pol., 294a 6-8)
In queste righe si definisce chiaramente quale sia il corretto metodo della legislazione e quale dunque il suo criterio di appartenenza alla scienza regia: si distingue infatti tra il vigore, o detto in termini moderni la vigenza e la efficacia delle leggi e la loro proporzionalità rispetto al regno. Quest’ultima che funge da vero e proprio metro di legittimità delle norme giuridiche assume il carattere di ragionevolezza, di phronesis, virtù pratica (in termini aristotelici, dia-airetica, ovvero condizione possibilitante ogni giudizio o decisione) della misuratezza.

Legge senza qualità

Alla attestazione del criterio di appartenenza della legislazione alla scienza regia (la legittimità), si aggiunge la determinazione propria della misura giuridica. Se non è possibile che «quel che resta sempre semplice (aplòs) vada bene per ciò che non è mai semplice» (Pol., 294c 7-8), allora «la legge non può mai prescrivere, e con esattezza (akribòs) per tutti ciò che è meglio e il più giusto, aggiungendovi anche ciò che è più conveniente (beltiston)». (ivi, 294a 10-b 2).
La legge non può risolversi in alcuna semplicità o purezza, la legge non può essere il più vago e vuoto dei principi, il più formale (e si tenga a mente questo interdetto platonico per quanto diremo in seguito), perché la materia a cui essa si applica è tutt’altro che semplice. L’aggettivo che qui viene usato, aplòs, indica specificamente la nudità, la mancanza di attributi o di qualità: quindi, qui Platone mostra la situazione paradossale in cui la legge resterebbe tra la sua generalità e l’impossibilità di essere, parafrasando Musil, una legge senza qualità.

G. Grosz, Autoritratto (1927), Galerie Nierendorf Berlin. Fonte: Abcgalery.com

G. Grosz, Autoritratto (1927), Galerie Nierendorf Berlin. Fonte: Abcgalery.com


Il paradosso tra precisione ed esattezza

Questo paradosso fa sì che alla legge sia impedito di prescrivere con esattezza, akribòs, vale a dire con puntualità, dando esattamente a ciascuno il proprio, inserendo la propria prescrizione all’interno di un ambito di convenienza generale. La legge sembra così costretta ad essere complessa ed inesatta; e solo così può essere legittima contemperando complessità ed inesattezza con la ragionevolezza della sua applicazione. La misura della sua istituzione deve cioè essere corretta di volta in volta da quella della sua stessa applicazione. Ancora una volta doppia è la misura della legge proprio perché è riportata su quella della sua prassi.

Il destino della misura

La determinazione generale che qui si considera come il panorama storico-ideale delle nostre riflessioni è quella della filosofia trascendentale come espressione moderna e tardo-moderna della filosofia della misura. Il trascendentale moderno, infatti, può essere definito come null’altro se non una peculiare declinazione della duplicità insita già nella nozione platonica di misura, che innerva e guida – come abbiamo già visto – quella di legge e di ordine umano o naturale. Se già da sempre la duplicità a cui si assegna la definizione di misura ricade in una auto-normatività e quindi in una meta-normatività (compiendo così un evidente slittamento dal retro-riferimento di un piano sull’altro – della misurazione sulla misura – al sovra-riferimento), nella concezione moderna del trascendentale proprio come regola metrica generale – onnivalente, valente in ogni caso perché il suo proprio valore deriva da null’altro che da sé come metro originario [Maßstab, nei termini della prima critica kantiana] – la trascendenza che un piano della misura aveva rispetto all’altro si realizza come retro-trascendenza.

Misura e trascendentale

La storia del trascendentale moderno – di cui a pieno titolo fa parte la pratica ed il pensiero scientifici – è la storia dell’evoluzione di un particolare concetto di metro, che dall’originarietà metrica della prima sintesi (della prima schematizzazione o dello schema di ogni schema, come sostiene il Kant dell’Opus Postumum) trae il proprio valore. Il retro-riferimento del metro trascendentale diviene così Aufbau, costruzione-costituzione del campo di correlazioni in cui ciascun metro vale.

Storia del trascendentale moderno come storia della nozione di misuratezza

Al termine di questa breve nostra ricognizione si avanza l’ipotesi che la storia del trascendentale moderno – o meglio ancora la storia della metafisica occidentale moderna e dell’ancora moderno intento di distruggerla – è la storia di una nozione di misura, e quindi ancora di legge e di ordine (umano o naturale). Giusto a questo fine sembra vieppiù obbligato determinare una nozione di misurazione che, nel cuore della modernità, possa richiamare le dottrine platoniche, descrivendo una sorta di continuità ideale. Proveremo pertanto ad indicare il termine ultimo della storia del concetto platonico di misura-misurazione nella Crisi delle scienze europee di Edmund Husserl, proprio per la sua capacità di scovare in questa nozione la genealogia dell’intero pensiero scientifico occidentale.

E. Husserl. Fonte: Wikipedia

E. Husserl. Fonte: Wikipedia


Ragionevolezza del metro

La breve digressione che ora inizieremo sulla genealogia del concetto di misura sia nella scienza e nella filosofia antiche che nell’esperienza pre-teoretica del mondo, facendo leva sulle riflessioni husserliane contenute nella Krisis, è giustificata dalla ricerca di un indizio teorico che abbiamo trovato nelle ultime righe platoniche esaminate. La possibilità di individuare un concetto di misura e di misurazione, slegato da quello di esattezza, ed ancora di più, di un concetto di misurazione che stante la complicatezza del suo materiale non può che rinunciare alla puntualità del particolare, cercando un risarcimento nella ragionevolezza del metro, nasce certo nel recinto della scienza regia, ma mostra una validità più ampia. Noi ipotizziamo infatti che nel Politico sia emersa un’idea di misura che non rimanda alla regolarità del singolare (ovvero alla costante ripetibilità metrica nelle misurazioni dei singoli casi); ovvero che non trovi la propria regola nella permanenza del metro e quindi nella misurabilità di ciascun caso dal medesimo metro. O ancora, che non rimonti alla stabilità della regola per neutralizzare l’instabilità di ciò che deve essere misurato.

Misura e matematizzazione

Proviamo a vedere ora, con l’ausilio delle considerazioni husserliane sulla genesi trascendentale della “matematizzazione galileiana (ovvero moderna) della natura”, se è possibile individuare un concetto di misura che ottemperi alla definizione vaga che sin qui abbiamo dato.
Non a caso nella sua analisi della traduzione della realtà naturale in molteplicità matematica (p. 20; ed. it., p. 53), Husserl parte proprio dal concetto platonico di metessi, non svolgendo però al riguardo un’adeguata riflessione; e questo rappresenta senza dubbio allo stesso tempo una lacuna ed un’indicazione che se connessa a quanto avrebbe scritto più oltre (Krisis, ed. it., p. 54) sulla differenza tra lo spazio geometrico e lo spazio fantastico, ovvero «quello spazio di un mondo sempre riplasmabile fantasticamente (pensabile) in genere», mostra a sufficienza quale dovesse essere il retroterra di queste righe.

L’esattezza delle forme-limite

La formazione dello spazio ideale è radicata nella determinazione di pure forme spaziali (i corpi puri, le rette pure, i piani puri, le figure pure), che non possono essere frutto di fantasia, perché «la fantasia non può che trasformare le forme sensibili in altre forme sensibili» (ed. it., p. 54). Ed è proprio perché ci interessiamo «di queste forme ideali e ci impegnamo conseguentemente a determinarle e a costruirne di nuove sulla base di quelle che sono già state costruite» (ed. it., p. 55), che noi possiamo dirci geometri. Ora questo tipo di passaggio viene attribuito da Husserl ad una prassi ideale che mantiene il pensiero puro nel regno “delle pure forme-limite”. Questa prassi matematica «ci permette di attingere ciò che ci è negato nella pratica empirica: l’esattezza (Exaktheit); perché per le forme ideali sorge la possibilità di determinarle in assoluta identità, di riconoscerle come substrati di qualità assolutamente identiche e metodicamente e univocamente determinabili» (p. 24; ed. it. p. 56). E siamo così finalmente giunti all’esattezza mediante una concezione della determinazione di figure privilegiate – ed è “questa la scoperta da cui è nata la geometria”, scrive Husserl (ibidem) – come derivante dalla definizione di una prassi ideale o matematica.

Misura e misurazione

Distinguendo già nell’atteggiamento pre-scientifico dell’esperienza di fatto del mondo un Aus-messen ed un Messen, una commisurazione prendendo un metro da ed una semplice misurazione, Husserl ha già delineato la scala genealogica che poi seguirà nello sviluppo delle sue riflessioni. «Ogni forma (Jede Gestalt) – prosegue (ivi, p. 25; ed. it. p. 57) – che rientra in quest’aperta infinità (nell’indefinitezza del dell’esperienza di fatto del mondo, ndr), anche quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obbiettività”, perciò non è determinabile intersoggettivamente da chiunque – per es. da un altro che non la veda di fatto – né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a costui serve la misurazione (Messkunst, ovvero l’arte del misurare, ndr). La misurazione è qualcosa di molto differenziato, il misurare vero e proprio (das eigentliche Messen) non è che il suo momento conclusivo». Dalla pratica arcaica dell’agrimensura, alla elezione di corpi rigidi di riferimento per misurare l’altezza delle montagne o la grandezza degli edifici, «la misurazione scopre praticamente la possibilità di scegliere come misura (Mass) certe forme fondamentali empiriche» (ibidem). L’arte della misura, die Messkunst, così, quando si giunse alla necessità moderna di determinare il “vero” essere, l’essere obbiettivo del mondo, finì col rappresentare la preparazione «della geometria universale e del suo mondo di pure forme-limite» (ivi, p. 25; ed. it., p. 58).

Esattificazione e verificazione

L’esattificazione della misura nella determinazione ideale della natura geometrico-fisica propria della scienza moderna corrisponde alla traduzione dell’Aus-messen dell’arte della misura, dell’esplicito riferirsi a qualcos’altro nel misurare, nella misurazione di una misura (Messen) obbiettiva, che rende allo stesso modo obbiettivo il misurato, ed obbiettivo in quanto verificabile intersoggettivamente (anche per chi non avrebbe partecipato all’Ausmessung), od ancora semplicemente “vero”. Così esattificazione e verificazione tornano alla loro origine metrica, a quell’origine che si è sobbarcata l’onere di rendere definita l’infinità dell’esperienza di fatto del mondo naturale, anche quando questo venga definito come infinito. (cfr. P. Spinicci, Il mondo della vita e il problema della certezza. Lezioni su Husserl e Wittgenstein, Cuem, Milano, 2000).

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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