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Nicola Russo » 4.L'uso o la posizione del nome come misura della sua giustezza


La definizione completa della «tesi naturalistica»

Ermogene: “[La giustezza del nome è connaturata a ciascuno degli enti per natura] e non tale è il nome che taluni, accordatisi a chiamarlo, chiamino, articolando una porzione della propria voce, ma una qualche giustezza dei nomi è connaturata sia per i Greci che per i barbari, la stessa per tutti“]. [383 a5-b2]

Dire un nome

La giustezza del nome, per Cratilo, come riferisce però Ermogene, abbiamo visto essere innata a ciascuno degli enti, per natura, per cui non tale è il nome, che taluni, accordatisi a chiamarlo, chiamino (καλεῖν καλῶσι). Ciò che viene pronunciato arbitrariamente e convenzionalmente, dunque, pur essendo φωνἠ, voce, lingua, non sarebbe in tale prospettiva autenticamente un nome.
Vi è un problema di traduzione che riguarda il senso del nesso καλέω ὅνομα: dico un nome..

G. Reisch, Margarita Philosophica, Typus Logicae (1503-08). Fonte: Wikipedia

G. Reisch, Margarita Philosophica, Typus Logicae (1503-08). Fonte: Wikipedia


I significati di kaleo

I significati di καλέω (lt. Clamare) sono innanzitutto «chiamo», nel senso di «convoco», «invoco» e, fatalmente, «evoco», che sul piano strettamente giuridico finisce per significare semplicemente «chiamo in giudizio». Poi: «richiedo», «reclamo», «domando». Ancora: «dico», «designo», «dichiaro». Da cui «nomino», «denomino», «appello». Abbiamo poi la costruzione con il doppio accusativo: ὅνομα … καλεῖν τινα, «chiamare qualcuno col nome di…» (richiede per lo più il nome ed è la costruzione secondo la quale generalmente si traduce il passo che leggiamo e vari analoghi). Poi c’è ancora una costruzione col dativo: καλεῖν ὅνομά τινι e ἐπί τινι, «dare il nome di… a qualcuno, a qualcosa». E infine abbiamo καλέω ὅνόματι, nel significato di «chiamo per nome».

Assegnare un nome

E allora: “Non tale è il nome che taluni, accordatisi a chiamarlo, chiamino”, ove questo καλεῖω, in modo abbiamo visto filologicamente corretto, significa semplicemente “dire”, “pronunciare” un nome, e quindi non “chiamare qualcosa con un nome”, non “assegnare ad una cosa un nome”. Qui non è detto così, anche se è il modo che a noi pare il più ovvio e banale, un modo che invero comporta tutta una serie di assunti che il testo greco esclude o se non altro non menziona, e innanzitutto proprio quello che è in fondo l’assunto di Ermogene, ossia che il nome sia una sorta di etichetta con cui designamo una cosa, attribuendole appunto quel segno arbitrario.

Adamo dà nome agli animali.
Miniatura da un manoscritto del XII secolo del trattato enciclopedico Etymologiae in venti libri di Sant’Isidoro di Siviglia.

Adamo dà nome agli animali. Miniatura da un manoscritto del XII secolo del trattato enciclopedico Etymologiae in venti libri di Sant'Isidoro di Siviglia.


Dalla parola al nome

Proviamo così a riorientare la percezione semantica del nesso: qui non è innanzitutto la cosa a essere chiamata, ma il nome stesso; ossia non abbiamo a che fare con una cosa anonima e con una parola qualunque che debbono essere messi insieme nell’atto del chiamare, bensì proprio con l’atto di costituzione della parola a nome tramite la sua evocazione, la sua pronuncia. Chiamare un nome è come invitarlo a presentarsi, quasi imporglielo tramite la potenza della parola articolata, comporlo affinché si faccia innanzi come questo nome di questa cosa.

Dire lo stesso

Ciò che si pronuncia, cui si dà espressione fonetica, previo accordo, quindi quasi una sorta di unisono, fondato com’è sulla ὁμολογία, sul dire lo stesso, qui proprio come riproduzione della stessa parola, non è perciò ὂνομα, poiché autenticamente nome è ciò che non deriva dall’accordo di coloro che parlano, ma dal suo accordo con la cosa stessa, cui il nome è connaturato (πεφυκὸς).

Physis-nomos

Dall’incipit del dialogo, che parte nettamente medias in res, ricaviamo una serie di domande, cui la lettura del testo ci attendiamo dia risposte. Domande legate ai termini centrali del discorso e ai loro nessi: ὂνομα, ὀρθότης, ὂντα, οὐσία, φὐσει, πεφυκέναι, συνθήκη σὐνθεσις, καλεῖν, φωνή, cui si aggiungeranno poi presto άλήθεια, όμολογία, πρα*γμα, νόμος, λόγος… e così via. Tutto un complesso problematico, che di volta in volta determineremo nello specifico delle singole questioni, che viene articolato e, diciamo, polarizzato dall’opposizione di fondo: φὐσιος-νόμος.

Il nome di Cratilo

Ermogene continua così (383b1-2): “Io gli chiedo, dunque, se a lui veramente è [proprio] il nome Cratilo o no. – Lui acconsente”.
Con questa prima domanda Ermogene intende cominciare a sviluppare il proprio tentativo di confutazione di Cratilo, seguendo un procedimento dialettico, fatto appunto di domande e risposte, che ha molto di socratico nella forma, ma meno nella consistenza, poiché Cratilo comprende subito dove vuole andare a parare il suo avversario e si sottrae ironicamente al suo gioco, uscendo poi completamente dal dialogo, come vedremo in seguito.

Nome proprio

Chiedendo: «ti chiami veramente Cratilo?», Ermogene sta intendendo qui la ὀρθότης, che rimane l’oggetto specifico del discorso, come «appartenenza secondo verità». E, però, la riferisce – certo strumentalmente – ai nomi propri, che sono evidentemente i più refrattari a mostrare una simile appartenenza, macchiati come sono così profondamente dalla loro singolarità e arbitrarietà, se vogliamo casualità.

Adeguazione

Per il momento ci limitiamo a dire questo, ma non è difficile intuire, che una simile concezione della correttezza dei nomi debba finire per avere una qualche relazione con la comprensione della verità come adaequatio, tema sul quale torneremo però ampliamente più avanti.

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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