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Nicola Russo » 3.Il nome dell'ontologia


Nome, essenza, cosa

Il gesto fondante di Platone – risolvere il discorso nel contesto della teoria delle idee, ossia sollevando la correttezza del nome su un piano, che non è quello meramente logico-formale, bensì eidetico e ontologico, piano sul quale viene assicurato e dotato di un preciso contenuto il nesso tra nome, essenza e cosa – comporta la mossa dal γένος come «genere naturale» al γένος come «genere ideale».
Tale gesto si approssima a coincidere con la vera e propria invenzione dell’ontologia e certamente pone le precondizioni della futura metafisica, dà quindi una svolta fondamentale per tutta la storia del pensiero occidentale e – mi sia permesso – per tutto l’occidente. Lungo questa via aperta da Platone, però, abbiamo poi uno sviluppo del pensiero occidentale, che arriva al punto di riconoscere che quella mossa era per l’appunto un’opzione di tipo metafisico e fondativo che non si regge più: si apre la questione del «nichilismo», che rimane lo sfondo a partire dal quale è qui letto Platone.

Ontologia e nichilismo

Alle due-tre prospettive legate al mondo greco si aggiunge una prospettiva ipermoderna, ultramoderna, che è quella inaugurata quando Nietzsche – traendo le ultime conseguenze della rivoluzione kantiana – riconosce questo gesto fondativo e perciò colloca Platone all’inizio della storia di “Come il «mondo vero» finì per diventare favola” e mette alla fine di questa storia qualcosa di diverso, che chiama Zarathustra, e che comporta un altro gesto radicale.
Diciamo, allora, che ogni ente è sì di per sé nominabile, ma non perché il nome nasca con la cosa, bensì perché l’ente nasce con il nome della cosa, si presenta nel nome della cosa.

F. Nietzsche (fotografia 1882). Fonte: Wikipedia

F. Nietzsche (fotografia 1882). Fonte: Wikipedia


Denominazione del “questo qui”

Ciò significa che il «questo qui», che può essere il qualsivoglia, lo ›kaston, ogni singola cosa che prendiamo a oggetto delle nostre considerazioni, nel momento in cui non è più questo qui, ma è – per dire – «un orologio», da «questo qui» è diventato un ente, è diventato «un qualcosa che è», un qualcosa che è e che è un orologio e non un’altra cosa, è diventato un qualcosa che è identico a se stesso e diverso dall’altro. Con la denominazione, quando assegnamo il nome alla cosa, quando la chiamiamo…

Dire la cosa

Nel dire la cosa, questa la soluzione di Platone, io dico non la cosa stessa, ma la sua essenza, ossia la sua idea, ossia ciò che è veramente la cosa, quindi la sua entità che è sempre la sua identità. Perciò dicevamo prima che portare la questione della ὀνόματος ὀρθότης sul piano ontologico significa innanzitutto la banalità che il nome è il nome di una cosa e non solo un ente linguistico. Questa banalità, in realtà, è foriera di uno sviluppo enorme, poiché proprio nell’essere il nome di una cosa, il nome non dice la cosa stessa, non la porta, non si identifica con la cosa, ma se ne distacca in quanto indice dell’essenza della cosa.

Nome e significato

Sulla base di quanto detto sin qui e riallacciandoci in particolare al tema della nominabilità della cosa e del significato ontologico della denominazione, asseriamo dunque che – relativamente! – è il λόγος il prius, ma non al modo di Ermogene, dei sofisti o degli analitici (che sarebbero i sofisti odierni, anche tecnicamente parlando, se non rappresentassero un fenomeno imparagonabile per grandezza interiore ed importanza alla sofistica antica), né al modo della vulgata platonica essenzialistica, poiché il λόγος non associa un nome ad una cosa o stato di cose [Tatsache], che di per sé se ne starebbero oggettivamente lì di fronte e fuori, letteralmente Gegenstände: contrastanti, come enti in attesa di essere nominati, ossia in attesa che qualche dotto filosofo del linguaggio azzecchi su ognuno di loro l‘etichetta con il nome e così li ordini in un bel catalogo (o forse neanche tanto bello, ma almeno funzionale).

La differenza tra cose e enti

Le «cose» – nel senso tecnico in cui uso il termine entro l’ipotesi ontologica, per poter dire la differenza tra cose, appunto, ed enti – non hanno alcun nome, evidentemente, né lo tollerano senza trasformarsi in enti, ma il λόγος non può aver a che fare se non con enti, ossia con cose nominate, poiché l’ente è sempre, costitutivamente, nominabile (e la cosa, concretamente, mai: noi non riusciamo mai a dire la cosa, diciamo sempre l’ente; non diciamo mai il «questo qui», ma diciamo l’idea, il concetto, l’essenza…, chiamiamola come vogliamo e pensiamola come vogliamo: la sua identità). Ecco, questo paradosso è il grande enigma della «differenza tra cose ed enti». La differenza, infatti, si presenta e compare solo dopo che si è consumata la sua cancellazione ad opera del λόγος, ossia solo dopo che la cosa è stata nominata e così trasformata in ente: noi ci accorgiamo che la cosa non è un ente, solo quando è già un ente e solo grazie a ciò. In altri termini, il paradosso consiste nel fatto che il λόγος pensi le cose nella loro differenza dagli enti, nonostante esso non possa che nominare enti e mai cose!

Nominabilità dell’ente

Se ciò che è nominabile è ente (poiché il nome dice un’identità, dice che un uno è qualcosa e che un qualcosa è in quanto «questo e non altro», orologio e non penna), ossia se si può nominare (dire, pensare, scrivere, comunicare…) solo un qualsiasi essente, come voleva in sostanza Parmenide con la sua equazione tra pensiero ed essere; se nel nominare qualsiasi cosa, lo ἕκαστον, che è il primo oggetto della filosofia, il «qualsivoglia» – fosse pure il nulla o il non-essere –, se nel nominarlo diciamo un ente, se quindi non possiamo mai dire la cosa senza tradurla-tradirla in ente, allora la coappartenza ontologica, il nesso necessario tra nome ed ente, non è affatto e mai nella forma della ὁρθότης, ma sempre e solo nella figura dello ψεῦδος. Le cose ci si presentano sotto mentite spoglie… e “il mondo con cui possiamo avere a che fare è irrimediabilmente falso”.

Salvator Rosa, Allegoria della menzogna, 1640-45 (Galleria degli Uffizi). Fonte: Salvatorrosaunion.blogspot.com

Salvator Rosa, Allegoria della menzogna, 1640-45 (Galleria degli Uffizi). Fonte: Salvatorrosaunion.blogspot.com


La falsità del nome

La falsità del nome è connaturata per il λόγος a ciascuno degli enti… il che vale certamente entro l’ontologica.
Al di là di ciò, ma grazie anche a ciò, quel che è opportuno sottolineare nuovamente, perché è teoricamente decisivo, è che l’interrogazione del Cratilo non è relativa al nesso ὅνομα-ὅν, nome-ente, che viene invece giustamente presupposto, ma relativa alla ὀρθότης dello ὅνομα nel suo essere proprio a ἑκάστοῳ τῶν ὅντων, a ciascuno degli enti.

La necessità del nome

Allora, per riassumere, τό ὅνομα non è quell’assurdo oggetto puramente intralinguistico intorno al quale discettano i sofisti antichi e moderni, ma è invece termine polare del nesso ontologico e correlato necessario di ogni ente; nesso rispetto al quale non è circa la sua sussistenza o meno che si rivolge l’interrogazione, poiché tale sussistenza è data e sempre preliminare, bensì circa la sua correttezza, la sua giustezza. Ma ciò che questo vuol dire compiutamente è concetto che viene guadagnato tramite il percorso dialettico del Cratilo, per cui la sua determinazione sarà possibile solo una volta avanzati nella lettura del dialogo.

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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