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Nicola Russo » 15.Riconoscere il nome


L’essere delle cose

Cerchiamo ora di trarre alcune conclusioni generali dalla lettura del passo.
La questione riguarda dunque l’essere delle cose. E, nel questionare l’essere delle cose, coinvolge ripetutamente nel discorso «noi». E non solo il «noi» chiamato e indicato per nome esplicitamente nel πρὸς ἡμᾶς, ma anche, e prima ancora, i «tutti noi» (πᾶσι) e gli «ognuno di noi» (ἑκάστῳ) dei due sofisti.
A ben vedere, infatti, proprio in riferimento a ciò acquisisce il suo senso l’opposizione insieme, che vuol dire contemporaneamente e sotto lo stesso riguardo, ai due sofisti, a Protagora e a Eutidemo, che abbiamo visto sostenere sì tesi opposte, accomunate però proprio nel tratto che risulta essenziale in relazione all’intreccio problematico che qui Platone intende risolvere: il πάντων χρημάτων μέτρος, infatti, la misura di tutte le cose, rimane in entrambi i casi lo ἄνθρωπος, sia nella forma dei tutti (πᾶσι) e quindi nel senso dell’indifferenza, come vuole Eutidemo, sia in quella del singolo qualunque (ἑκαστοῳ) e dunque nel senso della differenza atomica, come vuole Protagora.

Poli e relazioni

Ai tre poli che configurano le due relazioni («uomo–nome–cosa» e «uomo–essenza–cosa») si aggiungono poi ulteriori determinazioni. Innanzitutto vanno distinte le modalità con le quali l’uomo agisce verso il nome e verso l’essenza: qui abbiamo trovato, da un lato, la posizione del nome come θέσις o συνθήκη, dall’altro la presa dell’essenza come apparenza e opinione. Tali modalità, poi, sono propriamente quel che decide circa i modi della relazione cosa-nome e cosa-essenza: nell’ottica di Ermogene il nome posto è il nome corretto, in quella di Protagora l’essenza che mi sembra è l’essenza vera.

Imposizione del nome e Certificazione dell’essenza

In entrambe le serie, infine, le tesi sofistiche, siano esse quelle semantiche di Ermogene o quelle gnoseologiche e ontologiche di Protagora ed Eutidemo, prevedono che sia l’uomo misura della cosa, sia tramite l’imposizione del nome, sia tramite la certificazione dell’essenza. Proprio questo, insomma, vuol dire in tale contesto che l’uomo è misura di tutte le cose: innanzitutto che sta a lui sovrintendere sia dell’essenza, che del nome della cosa.

Le due triadi

La direzione, nella costituzione delle relazioni, insomma, è dall’uomo verso la cosa e non viceversa. Per questa ragione, nello schematizzare le due triadi e questi nuovi indici, cercandone la simmetria, partiamo in ogni caso dall’uomo:

uomo – (posizione) – nome – (correttezza) – cosa
uomo – (opinione) – essenza – (verità) – cosa

Schematizzazione


Riconoscimento

L’essenza come principio di stabilità delle cose, dunque, nel mondo greco è compresa sin dall’inizio non alla maniera dell’«in sé», dell’intimità della cosa pensata a prescindere da ogni modalità della sua conoscenza, ma in quella del καθ᾿αὑτὸ, l’«in quanto tale», il «secondo lo stesso», ove questo stesso sta di fronte a se stesso in una sorta di rispecchiamento (nel κατὰ c’è anche il «verso», il «contro», l’«a fronte»), che assicura la cosa al proprio riconoscimento poiché ne stabilizza l’identità. Non quindi la cosa, così come essa non è conosciuta (tale è il noumenon di Kant), ma proprio la cosa nella misura in cui è conoscibile: l’«in quanto tale», infatti, è propriamente la modalità fondamentale del riconoscimento della cosa, che, per poter essere riconosciuta, deve innanzitutto smettere di mutare, uscire dal flusso eterno e, in qualche modo ed entro una qualche misura, permanere. Ed è appunto legandosi alla sua stessità come essenza propria e determinata che la cosa permane, in una vera e propria dialettica dell’identità, giacché è proprio nell’uscire da se stessa verso la propria essenza che la cosa guadagna la propria entità: detto in una formula: la cosa è – anche nel senso dell’esistere e darsi e non solo come essere determinato – eguagliandosi a se stessa, il suo esser-cosa, esser-ente, la sua entità si radica nella sua identità.

Questo è x

Pensiamo alla formula: «Questo è x». È evidente che una simile formulazione vale sia come esempio della denominazione, che della conoscenza: nel dire cos’è questo qui io gli do un nome, ma con il nome ne ottengo pure il concetto o l’idea o come meglio ci piaccia chiamare la comprensione dell’essenza. E, in entrambi i casi, la determinazione del «che cos’è questo» è la sua riconduzione ad un altro, che già conosciamo o intendiamo: per usare i termini di Nietzsche, conoscere significa ricondurre qualcosa di ignoto a qualcosa di noto, tradire l’unicità del «questo qui» nella generalità del siffatto.

 

Papiro manoscritto del Simposio di Platone. Fonte: Wikipedia

Papiro manoscritto del Simposio di Platone. Fonte: Wikipedia


Memora e riconoscimento

Platone parlava di ciò nei termini della ἀνάμνησις, la reminescenza, non semplice mn»mh, memoria, ma un attivo riportare alla memoria, ἀνά, di nuovo: l’ἀνά della ἀνάμνησις è precisamente il ri- del riconoscimento; e che Platone fosse su ciò così in chiaro è indice del livello assolutamente straordinario della sua consapevolezza circa struttura e limiti della conoscenza: che il conoscere sia in ultima analisi un riconoscere, infatti, innesca un regresso verso i «primi conosciuti» del tutto analogo al regresso verso i «primi nomi» che si realizza nella sezione etimologica del Cratilo e che si traduce in un dubbio di fondo circa la possibilità stessa di una vera conoscenza, così come di una vera denominazione. Se ogni ignoto va ricondotto ad un noto, che è tale poiché a sua volta riconducibile ad un noto di grado più elementare, ebbene si dovrà arrivare, a un certo punto, al luogo in cui nessuna riconduzione è più possibile e bisogna invece pensare ad un atto originario della conoscenza, che sia la determinazione diretta dell’esser così di un qualsivoglia senza la mediazione di un già noto, già conosciuto, già nominato e denominato. Ma un simile atto originario è ciò che necessariamente ci sfugge, fintanto che stiamo, come dobbiamo stare e rimanere, entro il cosmo logico, che è il cosmo ove quell’atto, nel suo modo peculiare («l’ipotesi ontologica»), è sempre già avvenuto, è sempre presupposto e non è mai compiutamente riattualizzabile.

 

Lo sfondo eracliteo

Ma torniamo a noi: come ho detto, l’essenza, e con essa la teoria delle idee, fa il suo ingresso sulla scena del dialogo tramite il confronto con Protagora, figura che vale, da un lato, come il riferimento filosoficamente più degno delle tesi di Ermogene (il quale, però, stenta a riconoscerne la paternità protagorea), dall’altro già come la controfigura di Eraclito, che così comincia tra le righe ad essere il vero avversario di Platone, e lo sarà sempre più nettamente lungo il confronto con Cratilo. Infatti, in quel passo che abbiamo già citato tante volte (385e4ss.), Protagora viene fatto passare per il sostenitore della teoria che l’essenza degli enti “sia per ognuno privatamente”, posizione alla quale si oppone quella che ricerca “una qualche stabilità dell’essenza”, ossia precisamente quel che Eraclito avrebbe negato, parlando invece, come dice Platone, di flusso eterno.

Il tradimento del nome

La stabilità dell’essenza, dunque, vale come contraltare sia alla centralità del φαίνεσθαι in Protagora, che alla perfezione del flusso di Eraclito: di quel fiume, nel quale caratteristicamente proprio Cratilo afferma che non solo non si entra due volte, come voleva Eraclito, poiché non vi si entra neanche una volta sola. Questa tesi di Cratilo è riportata da Aristotele, che la lega direttamente alla questione dei limiti del λόγος. Scrive, infatti, Aristotele nella Metafisica, Γ 5. 1010 a7: “Inoltre, costoro, vedendo che tutta la natura è in movimento, e che verso ciò che muta (κατὰ τοῦ μεταβάλλοντος) non vi è alcun dire la verità, conclusero che non è possibile dire il vero su ciò che muta in ogni senso e in ogni modo. Da questa convinzione derivò la più radicale delle dottrine menzionate, quella di coloro che si dicono eraclitei e che anche Cratilo condivideva, tanto che si convinse che non si dovesse neppure parlare, ma solo muovere il dito, rimproverando perfino Eraclito di aver detto che non è possibile bagnarsi per due volte nello stesso fiume: questi infatti riteneva che non fosse possibile neppure una volta sola”. Vedete: verità si dà solo di ciò che permane, per cui il flusso è semplicemente indicibile, le cose si possono mostrare solo indicandole, ogni nome è un tradimento.

Appendice: Diogene Laerzio

Da tutto ciò, vediamo quanto proprio questo dialogo, il Cratilo, sia centrale per lo sviluppo della teoria delle idee, anche in funzione degli interlocutori che vi prendono parte: a distanza di alcuni secoli, la centralità del dialogo troverà espressione nella testimonianza di Diogene Laerzio, che, forse a partire proprio da Aristotele, tradurrà il legame tra Platone e Cratilo in un vero e proprio magistero del secondo verso il primo, traduzione nella quale anche ad Ermogene verrà affidato un ruolo analogo, che per contrasto a Cratilo dovrà essere quello del parmenideo: “Dopo la morte di Socrate, divenne discepolo di Cratilo eracliteo e di Ermogene, che praticava la filosofia secondo l’indirizzo di Parmenide” (Diogene Laerzio, Vite e dottrine…, op. cit., III 6).

Frontespizio dell’edizione delle Vite di Diogene Laertio del 1594. Fonte: Wikipedia

Frontespizio dell'edizione delle Vite di Diogene Laertio del 1594. Fonte: Wikipedia


I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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