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Nicola Russo » 18.La tecnica del nome


Introduzione

La domanda attorno a cui gira la seconda parte del corso è: a cosa guarda il legislatore ovvero a cosa conviene la legge? Il suo obbiettivo consiste nel forzare il Cratilo fino a spostarlo dal tema nome-cosa a quello legge-fatto; e ciò deve apparire a tutta prima un azzardo, se si tiene ferma la convinzione che nell’Antico vige la contrapposizione tra nÒm* e φύσει, tra ciò che è per convenzione e ciò che è per natura, o se solo si considera che una tale contrapposizione rappresenta la medesima scena in cui Ermogene e Cratilo discutono con Socrate.
Una tale dualità, però, come è noto, non era così polare e stabile né per Platone, né già per Tucidide che in una riflessione teorica sul concetto di giustizia e sulla sua storia dichiara una posizione ben più articolata della semplificazione cui si faceva cenno. Così come deve essere da subito chiaro che Platone non utilizza νόμος, per indicare convenzione ma συνθήκη (433e), lasciando al primo termine una più ampia gamma semantica ed un’altrettanto vasta ambiguità.

L’opera del legislatore

Nel Cratilo, quando il dialogo sembra essersi impigliato nelle ambasce di una dottrina della somiglianza, in cui il nome, il linguaggio e la scienza sarebbero dovute rientrare, quando cioè l’imposizione del nome pareva dover essere comparata all’opera del pittore e del musico, assimilandosi ad una sorta di immagine, è proprio l’analogia con l’istituzione della legge a risollevare il discorso. Assumendo da Ermogene che il linguaggio sia comparabile ad una tecnica, che sia cioè una capacità pratica, un’attività che riconduce il proprio criterio alle capacità del proprio autore, Socrate suggerisce che «a trasmetterci i nomi che usiamo sia la legge», e che quindi «l’insegnante quando usa il nome userà l’opera del legislatore» (388e). Attraverso quest’abile macchinazione – consistente nella coniugazione di due ipotesi: che il linguaggio sia tecnica operativa e che tecnica sia anche quella del legislatore – Platone fa slittare l’argomentazione in un luogo ostile al suo interlocutore.

Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio universale (particolare, Minosse). Fonte: Wikipedia

Michelangelo Buonarroti, Il Giudizio universale (particolare, Minosse). Fonte: Wikipedia


La misura della tecnica

Se la nominazione è una techne e il nominatore è un artigiano del nome, costui sarà esperto in un’arte difficile al pari di quella della legislazione. La sua difficoltà consiste da un lato nella difformità dei linguaggi (o in quella delle costituzioni), difformità che è storica e geografica assieme, dall’altro nella possibilità dell’errore o del falso: «è verosimile, infatti, che il legislatore sia il più raro degli artigiani tra gli uomini» (389a). Ermogene, che muovendo da una posizione convenzionalistica, è pronto a convenire sull’eventualità della fallacia dei nomi, e dell’ingiustizia delle leggi, resta sorpreso però dalla domanda subito successiva che Socrate gli rivolge: «verso dove guarda il legislatore, quando pone i nomi?».
Una tale domanda, che prelude alla biforcazione successiva tra correttezza e verità (ovvero tra la posizione tecnica o la statuizione legislativa e l’impiego per l’insegnamento e la distinzione), non può ammettere una risposta nei termini dell’individuazione di un criterio, ovvero della definizione di una tavola di valori di verità o di un metro presupposto a qualsiasi misurazione successiva.

Dall’ontologia alla Begriffsbildung: il ribaltamento della tarda modernità

Tuttavia sembra essere proprio questo il riflesso condizionato del Moderno quando ripensa alla domanda su nome-cosa, quando la traduce suddividendola nei suoi livelli linguistico-grammaticale, logico, gnoseologico, o nei termini di una formazione concettuale. Alla questione cosa nomina il nome e cosa dà a vedere il nominato si sostituisce quella circa il modo in cui si forma il concetto di qualcosa o di un oggetto. La sovrapposizione poi tra idea e concetto, ossia tra ente e oggetto – così come si delinea nell’interpretazione neo-kantiana (ed in specie natorpiana) di Platone – fa il resto: accompagna cioè la dottrina delle idee prima nella Wissenschaftslehre quindi l’abbandona all’epistemologia.

Dall’ontologia alla Begriffsbildung: il ribaltamento della tarda modernità (segue)

Se infatti la βεβαιότης τῆς οὐσίας, la stabilità dell’essenza, la misura stessa delle cose, su cui la medesima episteme si sofferma, viene riconsegnata ad una trascendentalità riflessiva, ad una retrotrascendenza, il cui principio non può che essere la sua stessa regolazione, l’ontologia non può non diventare Begriffsbildung e quindi correlativamente teoria degli oggetti (anche quando scopre la pre-teoreticità della propria origine). E ciononostante ancora in queste interpretazioni delle domande platoniche si può sentire l’eco della differenza sussistente tra l’apofansis (l’enunciato falsificabile o verificabile) e la delosis (l’ostensione cui dà luogo il nome, il nome primo, il minimo logico).

K. Malevic, Cerchio nero (1913), Museo Russo di Stato, San Pietroburgo. 
Fonte: Wikipedia

K. Malevic, Cerchio nero (1913), Museo Russo di Stato, San Pietroburgo. Fonte: Wikipedia


Linguaggi viennesi

Riportare l’interrogativo platonico nel cuore di uno dei momenti di incrinamento della tarda-modernità, nella Vienna degli inizi del secolo scorso – ove vigeva l’interesse per la natura dei linguaggi scientifici, ove gli studi logici, fisici, giuridici ed economici si sovrapponevano nella ricerca di un comune statuto per la positività scientifica – significa appunto mostrare una delle propaggini estreme ed allo stesso tempo più rivelatorie della medesima antica tradizione. In quell’ambiente autunnale – quando ancora non si erano affermate le scuole (né quella neopositivista, per cui si dovrà aspettare Hempel, Neurath e soprattutto Carnap, né quella positivistico giuridica, che sarà debitrice della Costituzione viennese prima e di quella weimariana dopo) – Schlick e Kelsen offrono due prove parallele di trattazioni teoriche sul rapporto tra legge ed esperienza, o semplicemente tra scienza e conoscenza. Due tentativi valorosi per quanto illustrano un’epoca e per quanto falliscono i propri obbiettivi teorici: due interlocutori che si aggiungono anacronisticamente al dialogo platonico, che permettono di comporre una domanda sullo statuto metrico del nome (enunciato)-legge, aggiungendo due ulteriori varianti al paradigma anti-naturalista sostenuto con alterne vicende da Ermogene e da Platone.

Dal nomos alla legge

Un tale tentativo implica però due mosse preliminari: la prima rispetto all’innesto greco antico e platonico; la seconda rispetto ai modelli tardo-moderni di empirismo/positivismo.
a) Si tratterà in prima istanza di tracciare i lineamenti della concezione greco-antica di νόμος, in quanto non perfettamente coincidente con quella di norma e di legislazione, quindi di spazio sacro, spazio giuridico e spazio geometrico ed infine del nesso tra legge, misura e scrittura ovvero del ruolo peculiare accordato da Platone al nomoqšthj ed in specie al πρὸτος νομοθέτης.

Dal nomos alla legge (segue)

In seconda istanza si dovrà considerare la configurazione propria della questione circa il nome-legge nella Vienna positivista del primo Ventesimo secolo, come esito di una vasta ridefinizione del compito delle scienze, al cui interno svolge una funzione decisiva l’interpretazione dei Dialoghi platonici da Lotze a Frege a Husserl fino alla filosofia analitica austro-angloamericana della contemporaneità. In quest’ottica potremmo utilizzare come margini di un tale spazio storico-concettuale la definizione schlickiana (e wittgensteiniana) di legge come istruzione per la formazione di enunciati (p. 53), quindi categoria regolativa o schema, e quella kelseniana di Grundnorm, norma fondamentale o metanorma, ovvero di norma che ancora una volta detta le regole di istituzione per tutte le altre. Da qui sarà finalmente possibile avanzare di nuovo l’interrogativo sulla significatività di un rapporto di regolazione (verificazione o falsificazione o giustificazione) tra legalità o normalità ed esperienza.

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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