In 385c1 troviamo una distinzione apparentemente strana, ma importante, tra l’intero e le parti del discorso:”Il discorso allora è quello vero se è tutt’intero vero, non essendo vere le sue parti?”, cosa che Ermogene si affretta a negare, compiendo così nuovamente, da un punto di vista logico formale, un errore, poiché non è affatto vero che un discorso possa essere vero solo se vere sono tutte le sue parti, a prescindere da quel che possa mai significare la verità delle parti.
Si intenda che una simile logica è del tutto diversa da quella in base alla quale si compilano le tavole di verità della logica proposizionale, che pure opera una sua distinzione tra parti del discorso, non ammettendo però parte inferiore alla proposizione che sia tale da poter essere vera o falsa, il che può comportare che anche una proposizione falsa può far parte di un’implicazione vera nella sua interezza. Ma non è certo questo, qui, il piano del discorso, che non si concentra sulle implicazioni tra più proposizioni, i sillogismi, ma sulla definizione uniproposizionale, le cui parti minime sono i nomi
(385 c16-17) Vi è dunque un dire nomi veri e falsi, così come discorsi [veri e falsi].
La proprietà del nome non è a partire dalla cosa, ma da colui che il nome lo assegna, giusta appunto la tesi positiva. Tesi che ora, però, non ha più a che fare solamente con la giustezza del nome, che in prima battuta implica solamente la coappartenenza tra nome ed ente, ma con la sua verità, che richiede in più almeno l’omofonia dell’essere, ossia che il nome dica l’essere della cosa. Ma come è possibile che il nome dica proprio l’essenza della cosa, se è posto arbitrariamente da chiunque?
L’esito aporetico dell’argomento è in qualche modo analogo alla mossa che compie Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale, quando passa dalla verità della proposizione alla «verità del concetto». Ovviamente parlando di Nietzsche usiamo i termini moderni, ma il passaggio è lo stesso ed è un passaggio che Nietzsche compie già drammaticamente in controtendenza rispetto alla modernità, poiché nel suo ambito e in particolare nell’ambito del positivismo è del tutto assodato e ovvio che di verità si parla solo circa le proposizioni, mai circa i termini, così come è ovvio che il linguaggio è, per così dire, un «sistema di nomi» e non di cose.
F. Nietzsche (foto del 1875 ca.). Fonte: Wikipedia
Nel positivismo e nella tarda modernità non viene più ammesso: il linguaggio non dice le cose, il linguaggio è piuttosto la sintassi di termini puramente logici. Il rapporto con la cosa, se così vogliamo dire, è spostato sempre più ai margini, anzi si tende in linea di massima ad escluderlo, poiché rappresenta un punto sempre problematico, ove le varie costruzioni teoriche trovano il proprio limite.
In Carnap – che porta all’estremo il tentativo di pensare una sorta di analogia tra impianto logico e impianto ontologico, al punto di affidare al linguaggio il compito della «costruzione logica del mondo» – il momento di maggiore debolezza è proprio quello in cui bisogna identificare il punto di contatto tra il linguaggio e le cose, punto di contatto che Carnap definisce «proposizioni protocollari», puramente descrittive, nelle quali il soggetto percipiente, ancora una sorta di ἰδιώτης, di singolo privato, afferma una serie di percezioni e nel protocollare un’esperienza di questo tipo costituisce i mattoni elementari, gli elementi minimi del discorso empirico, a partire dai quali il linguaggio può costruire il suo edificio logico. Un’impostazione di questo tipo, lo ripetiamo, va di pari passo con la tendenza moderna a considerare la proposizione come unità minima del discorso in ordine ai valori di verità e falsità, e ciò in piena coerenza con la concezione meramente logica delle parti del discorso, dei termini.
R. Carnap (foto del 1928). Fonte: Wikipedia
Riprendiamo allora l’argomento per concluderne l’analisi ed evidenziarne gli esiti:
385 c1-2: se si dà λόγος vero in quanto intero, allora anche le sue parti saranno vere;
385 c3-12: se sono vere le sue parti in generale, allora vera sarà anche la minima, il nome. Di questo passaggio abbiamo già detto a sufficienza, notando che un simile slittamento del luogo della verità dalla proposizione alla parola, al concetto, è tipico di un’impostazione ontologica rispetto ad una logica e formale, che è quella prevalente in ambito moderno. Ma vediamo ora con più precisione come l’argomento viene ulteriormente sviluppato.
385 c16-17: così come, dunque, vi è un λόγος vero e un λόγος falso, altrettanto vi è un dire nomi veri e nomi falsi. Attenzione: qui, a dispetto del fatto che si parli inizialmente di un dire – ὄνομα ψεῦδος καί ἀληθές λὲγειν –, e quindi si rimanga apparentemente su un piano pratico, così come lo abbiamo definito precedentemente, a dispetto di ciò è già avvenuto, in effetti, quello stesso passaggio che aveva portato precedentemente dal λὲγειν al λόγος (Εστιν ἀρα ὄνομα ψεῦδος καί ἀληθές λὲγειν, εἴπερ καί λόγον), per cui non è il versante soggettivo del dire a venir sottolineato, ma quello oggettivo del nome detto: il detto, insomma, rispetto al dire, si è staccato da colui che dice e vige per sé come nome. Che si possano dire nomi veri e nomi falsi, allora, significa innanzitutto che vi sono nomi veri e nomi falsi, il che non deve dipendere dall’atteggiamento di chi li dice, ma dalla loro propria costituzione e connessione ontologica, giusta la definizione della verità già ammessa precedentemente.
Socrate ha già confutato del tutto la posizione di Ermogene, facendogli ammettere una conseguenza in attrito insanabile sia con la tesi convenzionalistica, che con quella positiva o idiotistica. Se, infatti, il nome per sé può vantare ed esibire una sua verità o falsità, è su di questa che dovrà fondarsi quasi fatalmente la sua correttezza o non correttezza e non più sull’uso del nome. Ciò che accomuna, infatti, la tesi convenzionalistica e quella positiva è proprio che nel loro contesto la correttezza non appartiene intrinsecamente al nome, il nome «per sé» non è né corretto, né non corretto, non ha affatto una simile proprietà, è solo l’atto del porlo come nome di un qualcosa che gli attribuisce dal di fuori, in funzione appunto del suo uso (dei suoi vari possibili usi) una certa correttezza.
Ma quando, tramite il rimando alla verità, ossia parlando di nomi veri, la correttezza è spostata dal piano dell’uso dei nomi a quello del loro riferimento alla cosa, allora l’atto del porre non ha più quell’originarietà e fondatività che gli viene attribuita nella tesi convenzionalistica e positiva. Il che non toglie che possa ancora avere una funzione, che però va ripensata ex novo, come Platone si propone appunto di fare.
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