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Nicola Russo » 7.La verità come 'metron' della giustezza del nome. Le prime 4 argomentazioni socratiche contro Ermogene


Introduzione

Concentrandosi sulla differenza tra pubblico e privato, Socrate dà inizio alla sua opera ironica e decostruttiva, la quale si traduce in una serie di argomentazioni contro la posizione di Ermogene, che ne mostrano innanzitutto il carattere composito e, se vogliamo, disorganico – poiché tiene insieme almeno due tesi di fondo non conciliabili tra loro – e quindi man mano la erodono, per farla poi crollare nella sua interezza. Ovviamente, giacché è questa la regola entro il contesto della maieutica socratica, la critica non è fine a se stessa, ma finirà per aprire lo spazio per una fase ulteriore del dialogo, nella quale, come vedremo, troveranno espressione positiva e costruttiva certi elementi che qui hanno ancora una funzione soltanto negativa. Ma passiamo subito al testo, enucleandone in ordine le prime 4 argomentazioni contro Ermogene.

Il primo argomento: la distinzione tra pubblico e privato. 385 a2-b1

Avendo ascoltato la lunga definizione di Ermogene, Socrate la sintetizza nella prima delle sue due riprese, chiedendo:
Dici che quello con cui uno chiami una qualsiasi cosa è il nome di quella cosa?
Come abbiamo notato, il τίς di cui qui si parla, l’uno qualunque, è soggetto puramente indeterminato, il che in fondo stride sia con la convenzionalità della denominazione comune delle cose – la coppia συνθήκη καί ὁμολογία invero non richiede un soggetto univocamente determinato, ma esige che sia una pluralità e non un τίς qualunque –, sia con la normalità della denominazione – la coppia νόμος καί ἒθος è figura decisamente impersonale, rispetto alla quale la distinzione tra soggetto determinato o indeterminato finisce per non aver gran senso, poiché qui non vi è affatto una costituzione esplicita del soggetto, almeno non in maniera attuale e presente.

Il mito della caverna in un’incisione di Jan Saenradam (1604). Fonte: Wikipedia

Il mito della caverna in un'incisione di Jan Saenradam (1604). Fonte: Wikipedia


Il primo argomento: la distinzione tra pubblico e privato (segue)

Socrate, ovviamente, rileva questa incongruenza, insieme alle tante altre che il discorso di Ermogene mette in scena, ed è proprio per questo che chiede subito circa il soggetto della denominazione, richiedendone la determinazione di massima tra pubblico e privato, per poi mostrare in piena evidenza a quali conseguenze assurde conduca la tesi positiva, quando non distingua, come è necessario fare, questi due ambiti fondamentali.

Il primo argomento: la distinzione tra pubblico e privato (segue)

Abbiamo dunque questa distinzione tra l’ἰδιώτης e la πόλις, il privato e la città, che è poi, se letta sullo sfondo del contesto storico e sociale entro il quale è stata enunciata, anche la distinzione tra l’ambito economico, ma nel senso proprio dello οἶκος, e l’ambito politico, lo spazio pubblico della πόλις, innanzitutto come palestra della parola. È poi una distinzione, lo abbiamo visto precedentemente, che richiama quella tra nomi propri, che sono appunto privatamente, ἰδίᾳ, e nomi comuni, che debbono valere pubblicamente, δημοσίᾳ, con tutto ciò che questo comporta e che vedremo subito. E tuttavia è una distinzione che, inizialmente, Ermogene ritiene priva di conseguenze rispetto al proprio discorso, per ammettere solo successivamente che i due termini non sono indifferenti, ma che primario, in fondo – giuste le assunzioni della tesi positiva, che quindi evidentemente finisce per prevalere sulla convenzionale –, è l’ἰδιώτης, il proprietario come il singolo privato chicchessia, cui in ultima istanza è delegata la posizione dei nomi.

Il primo argomento: la distinzione tra pubblico e privato (segue)

La prima argomentazione socratica, dunque, rivela immediatamente un’aporia, che è in effetti già decisiva, ma che Ermogene non coglie, che anzi non vede proprio, giacchè non fa una piega di fronte all’assurdità della denominazione duplice dello stesso. Conseguentemente, poiché egli ammette che una stessa cosa possa avere due nomi, ossia giacché non rileva l’aporeticità di ciò che ne consegue, l’argomento imbocca un vicolo cieco e si esaurisce, interrompendosi ex abrupto. Socrate inaugura, allora, una nuova sequenza argomentativa, cominciando un primo discorso intorno al vero e al falso.

Il secondo argomento: dall’ambito pratico della veridicità a quello ontologico della verità (385 b2-b10)

Socrate: “Su, allora, dimmi questo: chiami qualcosa dire veramente e falsamente?”[...]
“Non vi sarà, dunque, un discorso vero e uno falso?”
“E, allora, quello che dica gli enti come sono, sarà vero; quello come non sono, falso?”
“Dunque si dà ciò: dire con il discorso gli enti e i non enti”.

Il secondo argomento: dall’ambito pratico della veridicità a quello ontologico della verità (segue)

In poche battute Socrate passa dall’accertamento della possibilità di distinguere un dire in verità o falsamente all’assicurazione del fatto che il λόγος non enuncia solo parole, ma dice gli enti. L’ulteriore distinzione tra dire il vero e il falso, poi, che è al centro dell’argomento, è di importanza assolutamente cruciale, ma sulle varie forme che assume nella prima filosofia greca e sui diversi sviluppi del discorso inerente torneremo più avanti, anche perché nel dialogo il tema viene ripreso con maggiore ampiezza rispetto a qui, ove, fungendo da passaggio all’interno di una sequenza deduttiva che si sviluppa poi in maniera eccentrica, è solo accennato. Non è quindi ancora questo il momento, ma dovremo presto parlare tanto del modo in cui la questione si configura nella filosofia parmenidea, ove si può dire che nasca (insieme all’asserzione che il falso non è possibile), quanto delle sue declinazioni sofistiche, soprattutto quella protagorea, che fanno tesoro degli insegnamenti della dialettica zenoniana, sviluppandola certo ben oltre i suoi assunti e i suoi scopi.

Il secondo argomento: dall’ambito pratico della veridicità a quello ontologico della verità (segue)

Questo secondo argomento non è immediatamente rivolto contro le posizioni di Ermogene, ma opera l’inquadramento dell’intera questione entro la dimensione ontologica, guadagnata con l’acquisizione che il λόγος dice gli enti, tesi cui abbiamo qui appena accennato e sulla quale torneremo per dirne l’articolazione complessiva e l’inapparente profondità e complessità. Un simile inquadramento, però, oltre a fornire le premesse per gli argomenti successivi, implica comunque una critica radicale sia della tesi convenzionale che di quella positiva, che sono entrambe, ognuna a modo suo, aliene alla comprensione ontologica del linguaggio.

La «banalità» del vero e del falso (385 b2-3)

“Chiami qualcosa dire veramente e falsamente?” καλεῖς τι ἀληθῆ λὲγειν καί ψευδῆ;  – La domanda è volta innanzitutto all’assicurazione della possibilità e sensatezza delle espressioni «dire secondo il vero» e «dire secondo il falso». Tuttavia essa è posta non in maniera impersonale, come avviene solitamente e anche nelle domande successive, ma nella seconda persona singolare – καλεῖς… –, circostanza che in questa occasione merita di essere notata, poiché è il segno che l’argomento ha il suo principio non in esigenze puramente logiche o formali, ma nell’esperienza vissuta, ovviamente in termini generali, ossia in quella di Ermogene come in quella di ciascuno.

Dire secondo il vero e dire secondo il falso

Qui tutto ciò significa che quella assicurazione della possibilità e sensatezza delle espressioni «dire secondo il vero» e «dire secondo il falso» non è niente affatto qualcosa di teorico, non intende una possibilità di ordine logico-formale o linguistico, non ci assicura della coerenza o incoerenza interna del discorso nel suo rimando al vero e al falso, ma ci interroga circa il senso che percepiamo in quelle espressioni, il significato che esse hanno propriamente per noi, rispetto alla nostra esperienza del dire e parlare e quindi innanzitutto della parola come dialogo, foss’anche interiore. Per tutto ciò qui è detto λὲγειν e non λόγος: “dire” e non “discorso”, perché in gioco non sono la proposizione e i suoi valori di verità, ma il parlare come attività dell’uomo, che nel dire fa esperienza del vero e del falso. Insomma, con la sua domanda Socrate pone Ermogene di fronte alla «banalità» del vero e del falso nel senso che lo pone di fronte al fatto che distinguiamo dire il vero da dire il falso, che abbiamo esperienza e sappiamo cosa significa essere veridici o mentire.

I materiali di supporto della lezione

Dispensa - Parte prima

Dispensa - Parte seconda

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