Das Mädchen aus der Fremde è una poesia di Schiller divenuta immagine lirica della condizione di Hannah Arendt.
Come la fanciulla dei versi, Arendt ha abitato molte terre straniere, in senso metaforico e letterale:
la filosofia, in cui era stata educata e che ha poi abbandonato per lunghi anni;
la Germania nazista, che ne ha cancellato l’identità;
l’ebraismo, un “dato di natura” che ha più volte segnato il suo destino;
gli USA, che pur accogliendola con una nuova cittadinanza, non hanno placato la nostalgia per una patria spirituale, fatta di lingua e cultura, che Arendt aveva lasciato in Europa.
Arendt comincia a leggere Kant molto presto, fin dagli anni del liceo.
Soltanto però negli anni Cinquanta ha inizio un lungo cimento filosofico con la terza Critica che durerà fino alla morte.
L’ultima pagina trovata sulla sua macchina da scrivere aveva infatti per titolo “Judging” e conteneva due citazioni, di Lucano e di Goethe, che avrebbero dovuto introdurre la terza parte mai scritta della Vita della mente dedicata appunto al Giudizio (dopo il Pensare e il Volere).
Un maggiore interesse per Kant matura anche grazie alla filosofia di Jaspers, che lei considera erede legittimo del filosofo.
Tra gli anni ‘60 e ‘70 Arendt dedica alla filosofia politica di Kant alcuni corsi universitari.
Il contenuto delle lezioni rappresenta già una novità rilevante e inconsueta, dal momento che – è detto in apertura dei corsi – Kant non ha mai scritto una “filosofia politica”.
La tesi arendtiana si svolge attraverso la lettura degli scritti kantiani sulla storia e soprattutto della Critica del Giudizio.
Arendt ha più volte rifiutato la qualifica di filosofa e ha preferito quella di teorica della politica.
Le sue idee sulla politica però sono maturate attraverso una profonda conoscenza dei classici della filosofia e come tentativo di comprensione degli eventi decisivi della storia del Novecento.
In Arendt trovano poco spazio le pur fondamentali questioni giuridico-istituzionali perché per lei la politica è “agire nel mondo”.
In risposta alla sottrazione della scena politica attuata dai regimi totalitari Arendt avverte la responsabilità di ridare senso ad una fondamentale sfera dell’attività umana.
Il Giudizio, che distingue e valuta caso per caso e in assenza di universali logici, è per Arendt un indispensabile mezzo per orientarsi nella realtà storica.
È inoltre politico nella misura in cui nella storia si è obbligati a render conto agli occhi degli altri di ciò che si pensa e si fa.
Il Giudizio riflettente estetico non produce una estetizzazione della politica ma
risponde perfettamente ai canoni dell’agire politico.
Si rivolge agli “uomini al plurale” e ha a cuore i temi della pubblicità e della comunicabilità del proprio pensiero.
La “filosofia politica” è dunque una “filosofia del giudizio”.
Uno degli assunti fondamentali della riflessione arendtiana riguarda la distinzione tra pensare e giudicare.
Entrambi, assieme al volere, sono attività della “vita della mente” ma ciascuna dotata di oggetti e modalità di indagine differenti.
La distinzione è modellata su quella kantiana di intelletto e ragione e sulla differenza, ribadita in molte filosofie moderne e contemporanee, tra conoscere e pensare.
Come il giudicare però, anche il pensare è cosa diversa dalla mera logica, sterile automatismo della mente, che Arendt individua nelle strategie propagandistiche dei totalitarismi.
A partire dal suo studio sulle Origini del totalitarismo (1951) Arendt ha associato la crisi della politica a quella dello spazio pubblico e della pluralità umana.
Lo spazio pubblico (Öffentlichkeit), nozione di ascendenza kantiana e jaspersiana, è una condivisa sfera d’azione in cui si manifesta l’agire politico, che necessita del vivere associato e dell’interazione tra volontà e opinioni.
L’elogio del “pubblico” ha portato a Arendt a delineare per converso una “critica della vita intima“, critica dell’individualismo e dell’ascetismo filosofico e non della vita interiore fatta di passioni ed emozioni.
Nel ‘58 Arendt pubblica la sua “fenomenologia della condizione umana”, la Vita activa, in cui è discussa la pluralità umana.
Pluralità non allude ad un generico tipo umano ma al dato di fatto incontrovertibile che gli uomini esistono “al plurale”.
Plurale è già il pensiero, dialogo tra sé e la propria coscienza (un piccolo tribunale interiore), che però si forma sempre in solitudine e si ritrae dal dominio pubblico.
È nell’azione tuttavia che meglio si concretizza la pluralità, richiedendo l’esercizio della kantiana “mentalità ampia”, ovvero il rispetto per volontà e opinioni differenti.
Lo spettatore giudice imparziale compare nei testi arendtiani con riferimento a Kant e rappresenta il soggetto del Giudizio.
Non si tratta di chi passivamente osserva gli eventi o ne è emotivamente coinvolto, quanto di un soggetto “terzo”, disinteressato, che ha la possibilità di gettare uno sguardo di insieme sugli avvenimenti e coglierne la ricchezza di particolari senza mai pronunciare giudizi finali.
Influisce sul tema anche la lettura arendtiana del racconto kafkiano Er, un soggetto pronominale che vive, agisce e giudica nella lacuna del presente, sotto le spinte congiunte del passato e del futuro.
Il reportage sul processo Eichmann La banalità del male (1963) ha coinvolto Arendt in una lunga polemica sul “diritto di giudicare”.
È stata contestata la formula di male commesso per motivi banali, scambiata per una banalizzazione della Shoah: per Arendt invece quell’evento, compiuto da individui incapaci di giudicare in autonomia, ha incrinato le tradizionali teorie sul male.
È stata inoltre accusata di non avere il diritto di giudicare eventi dolorosi che non l’hanno toccata in prima persona: a questa accusa la pensatrice reagisce ribadendo lo stretto legame tra giudizio e responsabilità.
1. Introduzione alla filosofia teoretica
2. Inizio ed Origine del Pensiero
3. Inizio ed Origine del Pensiero. Parte seconda
8. Il Giudizio Estetico Riflettente
9. La nozione antropologica del sentimento
10. Per un Kantismo post-moderno: il caso Lyotard
11. Introduzione al “giudizio”
12. Il modello kantiano di Giudizio
13. Il Giudizio: un'antica questione
14. Il Giudizio nella filosofia moderna
15. Il Giudizio nella filosofia tedesca di fine Ottocento e primo Novecento
16. Il Giudizio nella filosofia contemporanea
17. Il Giudizio in Hannah Arendt
18. La “filosofia del giudizio” in Italia
R. Viti Cavaliere, Giudizio, cit., “La figura dello spettatore”, pp. 133-154.
Per approfondire:
H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987;
ID., Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, Genova, 1990;
ID., Vita activa, Bompiani, Milano, 1994;
R. Viti Cavaliere, Critica della vita intima. Soggettività e giudizio in Hannah Arendt, Guida, Napoli, 2005;
ID., Lo spettacolo della storia, in “Palomar”, 1/2006, pp. 28-38;
E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.