Scaravelli giunge alla filosofia dopo gli studi di medicina, matematica e musica, interessi che riemergono anche nelle sue minuziose analisi dei pensatori classici: Platone, Cartesio, Kant, Hegel, Croce, Heidegger.
Nella commemorazione funebre a Pisa, Antoni lo ricorda come “un libero, scanzonato toscano”, “immune da ogni gravità pedantesca”, capace di “ridurre ad un’essenziale formula di logica un intero sistema”.
Scaravelli è stato un “logico puro”, nel senso che si è interessato all’esame rigoroso dei presupposti logici del pensare.
Tra i pochi scritti editi in vita la Critica del capire (1942) occupa il posto principale.
Il “capire” è stato il problema speculativo di Scaravelli, in un duplice senso:
Le Osservazioni sulla “Critica del Giudizio” (1955) sono l’ultima opera pubblicata da Scaravelli.
Il saggio setaccia l’opera kantiana alla ricerca della possibilità di una conoscenza extraintellettuale dei fenomeni empirici.
Scaravelli legge in continuità la terza Critica con le due precedenti e, canzonando quanti hanno smontato e rimontato lo sforzo senile di Kant, legittima il suo problema di fondo: l’elaborazione filosofica dell’immenso materiale di varia vita (biologia, psicologia, arte, gusto ecc.) che non ricade sotto i princìpi dell’intelletto e della ragione.
L’analisi scaravelliana muove da un’idea di fondo:
l’insieme delle conoscenze empiriche, come risulta dalla prima Critica, costituisce, malgrado le diversità, una “unità analitica“.
Quanto è stato dichiarato sintetico, dunque ogni conoscenza, assume una funzione analitica: i fenomeni infatti formano “un tessuto compatto e unito, ovunque identico” perché sono considerati per ciò che hanno in comune (leggi trascendentali della natura o princìpi o giudizi sintetici a priori).
Irrompe il problema dei “molteplici”, che nella prima Critica è molteplice analitico in senso lato e, nello specifico, empirico e puro.
Il “terzo molteplice” è costituito dalle eterogenee e varie forme e leggi empiriche della natura che presentano all’intuizione una “rapsodia di percezioni”, una “baraonda di fenomeni”.
Questo “aggregato rozzo e caotico” non contiene traccia di un sistema: l’intelletto non ne può render conto perché non sa ricondurlo ad unità sotto un principio.
A prima vista rappresenta una pietra di inciampo per la conoscenza: si rivela invece tale solo per l’intelletto ma non per le facoltà conoscitive in generale.
Le “molteplici forme della natura” sono ricondotte infatti ad unità “contingente” per mezzo del principio di finalità e hanno nel Giudizio la relativa facoltà conoscitiva.
La possibilità che il molteplice empirico sia ricondotto ad unità sotto un principio costituisce un “problema pregiudiziale” da cui dipende la legittimità della terza Critica.
La questione del “filo conduttore” per uscire da questo labirinto di esperienze è tutt’altro che peregrina perché si radica a priori, sebbene non unicamente, nell’intelletto: si tratta dunque di una pretesa legittima e necessaria.
L’intelletto però da solo non è in grado di rinvenire questo principio. È il concorso della ragione infatti ad aprire prospettive nuove postulando, in senso regolativo, l’unità del molteplice sotto leggi teleologiche.
Precedenti nella prima Critica: la Dialettica trascendentale e la sua Appendice.
Non l’intelletto o la ragione ma il Giudizio individua il principio trascendentale che unifica il molteplice.
Il principio a priori con l’aiuto del quale il Giudizio risolve il problema del terzo molteplice è identificato da Scaravelli come “presupposto trascendentale“.
Grazie a questo principio il Giudizio risulta una facoltà a priori in grado di raccogliere in unità il molteplice (trovare un concetto – empirico – per ogni quid della natura) e subordinare il particolare a questo concetto, ossia sussumere il particolare sotto il generale e trovare il generale per ogni particolare.
Il capitolo sul “difetto di secunda Petri“, con il suo brioso incipit, sembra quasi una sosta o un intermezzo tra gli impegni teoretici della legittimità del terzo molteplice e del presupposto trascendentale del Giudizio.
Il lato della questione che qui interessa è de iure, relativo cioè al diritto di cadere nel “difetto di Giudizio“.
Se il Giudizio è “un talento particolare, che non si può insegnare, ma solamente esercitare”, alla sua mancanza non possono supplire scuole o dottrine.
Il problema sotteso riguarda l’eautonomia del Giudizio, ovvero la capacità propria di questa facoltà, che sussume sotto regole, di dare regola a se stessa.
Necessità non è universalità: non a caso Kant le distingue in due Momenti di definizione del bello.
La necessità richiama il “dovere” insito nella pretesa del singolo giudizio di gusto all’approvazione universale.
Essa cade però sotto una “condizione trascendentale” che riguarda il rapporto tra ogni giudizio e il suo principio.
La necessità del giudizio di gusto non è di tipo apodittico (come per il giudizio logico) né di tipo pratico-morale: è invece esemplare perché il giudizio di gusto, data l’indimostrabilità del suo principio, diviene “esempio di una regola generale”.
Il giudizio di gusto, esempio di una “individuale universalità”
La presenza della rappresentazione (soggetto) del giudizio di gusto è un tema talmente complesso da necessitare un’analisi dettagliata della terza Critica e numerosi rimandi alla Prima, in particolare per:
Nell’ultimo caso Kant, spogliando la rappresentazione dei suoi elementi concettuali e materiali, per ricavare la forma, metterebbe in atto un “procedimento dei residui“.
Scaravelli accenna, discutendo del terzo molteplice, ad una nuova determinazione del concetto di causa da parte di Kant.
Essa fa luce sulla visione meccanica del mondo fisico della prima Critica e mostra perché quest’ultima non possa render conto di tutti i fenomeni della natura.
Non si tratta di stemperare eccessi meccanicistici: va compresa invece la differenza tra il meccanicismo pre-kantiano e pre-critico dal “meccanismo” kantiano o critico, che, limitato alla superficie fenomenica delle cose, non è principio o legge trascendentale.
Nella ricerca delle cause non si esce dall’ambito dell’esperienza empirica: la causa di un fenomeno è sempre un altro fenomeno empirico.
Del sublime Scaravelli non dà una lettura romantica.
Si concentra invece sulla sua “struttura trascendentale” ovvero su quanto, presente nel sublime, si trovi in ogni altro fenomeno (la composizione del molteplice in unità).
Partendo dal sublime matematico si fa luce sui tre elementi che costituiscono la dimensione trascendentale del sublime in generale:
1. Introduzione alla filosofia teoretica
2. Inizio ed Origine del Pensiero
3. Inizio ed Origine del Pensiero. Parte seconda
8. Il Giudizio Estetico Riflettente
9. La nozione antropologica del sentimento
10. Per un Kantismo post-moderno: il caso Lyotard
11. Introduzione al “giudizio”
12. Il modello kantiano di Giudizio
13. Il Giudizio: un'antica questione
14. Il Giudizio nella filosofia moderna
15. Il Giudizio nella filosofia tedesca di fine Ottocento e primo Novecento
16. Il Giudizio nella filosofia contemporanea
17. Il Giudizio in Hannah Arendt
18. La “filosofia del giudizio” in Italia
R. Viti Cavaliere, Giudizio, cit.: Scaravelli: il difetto di “secunda Petri”, pp. 116-121;
L. Scaravelli, Osservazioni sulla “Critica del Giudizio”, cit.
Per approfondire:
C. Antoni, In memoriam di Luigi Scaravelli, in Gratitudine, Ricciardi, Milano- Napoli, 1959, pp. 32-52;
ID., recensione a L. Scaravelli, Critica del capire, in “Giornale critico della filosofia italiana”, XXIII, 1942, III-IV, pp. 232-234;
L. Scaravelli, Critica del capire, a cura di M. Corsi, La Nuova Italia, Firenze, 1968;
ID., Lettere ad un amico fiorentino, a cura di M. Corsi, Nistri-Lischi, Pisa, 1983.
filo giudizio labirinto molteplice