Nella teoria freudiana classica il concetto di trauma occupa un posto centrale in quanto “evento reale” fonte di un’eccitazione eccessiva, economicamente inelaborabile per l’organismo e che ha quindi determinato l’insorgenza di un disturbo. Dunque intensità e momento definiscono l’evento come traumatico, ma sappiamo anche che la traccia lasciata nella psiche dall’evento non costituisce di per sé “il trauma”, perché sono le condizioni maturative e gli eventi tardivi a convertire retroattivamente (secondo il concetto della nachträglichkeit) il primo evento in trauma. Successivamente, nella teoria freudiana gli eventi e le “reminiscenze” cederanno il passo alle scene fantasmatiche (Freud, 1897), sicché è l’evento psichicamente reale ciò a cui viene attribuito valore, insieme al fattore filogenetico e al fattore infantile. Ma l’attenzione che verrà poi posta sulle nevrosi traumatiche consentirà di spostare il fulcro su quell’eccesso, economicamente inelaborabile, di stimolazioni che fanno breccia “nella barriera protettiva che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi” (Freud, 1020, p. 215). Così, la valenza traumatica delle esperienze sarà in rapporto con l’inermità e l’impotenza, ovvero con la sensazione di inondazione dell’Io incapace di padroneggiare la situazione, sia che le stimolazioni provengano dall’esterno sia dall’interno (Freud, 1926).
Inevitabile pensare, in questo senso, all’impingement (Winnicott, 1947) e alla funzione materna di scudo, a protezione dell’infante inerme di fronte all’azione cumulativa e retrospettiva delle esperienze traumatiche (Khan, 1974).
Possiamo dunque definire traumatiche:
Un disturbo reattivo definisce quella configurazione sintomatologica in cui un disagio inizialmente temporaneo (ma che può rischiare di strutturarsi, fissandosi in qualcosa di più persistente) viene a rappresentare l’esito di una condizione esterna, cioè di un avvenimento che si ritiene responsabile del disturbo e, in assenza del quale, tale disturbo non si sarebbe prodotto. Si parla quindi di disturbo reattivo quando la sintomatologia non si sia andata già a fissare ed inscrivere in un quadro nevrotico più complesso, di cui però potrebbe costituire l’inizio. L’instabilità psicomotoria, i disturbi del sonno, gli insuccessi scolastici, uno stato depressivo, i disturbi del comportamento (fughe, furti) ne possono rappresentare delle esemplificazioni. La reazione prodotta può, dunque, rappresentare sia un tentativo di adattamento o di fronteggiamento della situazione, sia una difesa.
Per fattori di rischio si possono intendere tutte quelle condizioni esistenziali, riguardanti il bambino e/o il suo ambiente familiare, che espongono ad una potenziale morbosità mentale superiore a quella che si riscontrerebbe nella popolazione normale. Tra i fattori di rischio che possono incidere sullo sviluppo (sulla qualità della vita, ma soprattutto sulla strutturazione della psiche infantile in via di maturazione) riconosciamo:
E’ chiaro che, senza stigmatizzare le fasce sociali e le persone che possono incorrere in una condizione di rischio, tali presupposti devono indurre il clinico ad intervenire preventivamente in un’ottica prospettica, pur tenendo conto di una difficoltà predittiva. In questo senso è utile elaborare strategie atte a prevenire e proteggere il bambino dall’insorgenza di ulteriori condizioni patologiche o di criticità, intervenendo laddove il rischio si lega ad una condizione di maggiore vulnerabilità della persona.
Se è vero che “il bambino non esiste” (Winnicott, 1952) nel senso che è impossibile pensare che un bambino possa vivere senza le necessarie cure materne (ascrivibili all’alimentazione ma anche al significato psico-affettivo dell’accudimento che passa attraverso l’alimentazione), il clinico deve fare i conti con la dipendenza del bambino dal suo ambiente familiare e con quei fattori che inevitabilmente si intrecciano nella dimensione evolutiva come parte delle dinamiche relazionali. In questo senso, da un punto di vista clinico non è possibile scindere il bambino dal suo contesto familiare (che, come si è accennato, può avere un peso considerevole nell’emersione e nella strutturazione del sintomo, così come nella sua gestione in termini di rafforzamento).
Disturbi mentali e affettivi dei genitori, carenza, eccesso, discontinuità e distorsione nelle relazioni assumono significati considerevoli nello sviluppo del bambino e nella possibilità che questi strutturi una psicopatologia; ciò non toglie che esistono una dotazione genetica ed un temperamento personale che certamente incidono nel determinare differenze individuali nel fronteggiamento della patologia genitoriale o della carenza nella dimensione di relazione.
Il legame di coppia è certamente uno dei più complessi. La coppia è una costruzione relazionale che esprime il mondo interno di ciascuno dei partner; una costruzione che si modifica e modifica i singoli individui nel corso del tempo ponendosi, dunque, come crocevia tra l’intrapsichico e l’interpersonale. L’incontro di coppia genera infatti una sorta di accordo inconscio tra i partner, una configurazione psichica inconscia della relazione (accordo, contratto, incastro, patto), che la organizza.
Giannakoulas (1999) parla dei processi di innamoramento, amore e genitorialità come di quelle “crisi evolutive” che è necessario attraversare e che comportano trasformazioni nell’individuo come nella relazione di coppia; tali cambiamenti, attraverso un processo d’elaborazione, conducono ad un cambiamento evolutivo fisiologico, che comporta una ridefinizione dei confini dell’Io individuali e all’interno della coppia (la coppia come “unità psico-somatica”). Se è vero che la collusione inconscia di una coppia è costituita da particolari incastri o complementarità dei singoli inconsci individuali, ciò che non è elaborato delle crisi evolutive individuali va ad approfondire tale collusione nei suoi tratti patologici e negli aspetti di irrigidimento e fissità, o autoripetitività.
Con l’innamoramento, l’investimento affettivo deve cambiare il suo oggetto separandosi dal primo oggetto d’amore, col rischio di riproiettare sul nuovo oggetto d’amore situazioni vissute in passato. Ma perché dall’innamoramento si possa passare all’amore, è necessario che ciascuno dei partner abbia effettuato un graduale disinvestimento dagli oggetti del passato, perché solo così è possibile investire affettivamente una persona nuova e reale. Solo il disinvestimento degli oggetti primari consente, infatti, la creazione e l’investimento uno spazio psichico condiviso, nella coppia e della coppia.
La coniugalità, ovviamente, non coincide con la genitorialità: la coniugalità può essere intesa, infatti, come una funzione mentale combinata alla quale danno vita i partner sviluppando una loro relazione di coppia; un assetto mentale congiunto che deriva dalla confluenza nel legame delle rappresentazioni interne dei partner che si intersecano dinamicamente tra loro. La genitorialità, invece, definisce piuttosto una funzione complessa tramite cui la coppia esprime il proprio progetto procreativo e si costituisce quale ambiente naturale di cura. Naturalmente in questo processo ha notevole importanza il confronto con un progetto genitoriale che avviene dapprima nel registro dell’immaginario, della fantasia progettuale appunto e che concerne la possibilità di creazione di uno spazio psichico per accogliere il terzo, il figlio. Ma l’acquisizione della genitorialità passa attraverso una serie di processi trasformativi che si sviluppano a partire dalla qualità delle elaborazioni individuali e di coppia riguardo alle fasi evolutive precedenti, alla relazione reale e fantasmatica con l’altro da me, in primis con l’oggetto primario e poi con quello edipico. La genitorialità non è, infatti, sia per l’uomo sia per la donna, l’esito naturale del percorso evolutivo, tanto meno si può immaginare sorretta da una matrice esclusivamente istintuale. D’altro canto si è già considerata la fantasmatica che si accompagna al processo gravidico e, così, quale significato possa assumere nella complessità dell’universo femminile (Ferraro, Nunziante Cesàro, 1985).
La prova tangibile della propria capacità procreativa implica, su un piano profondo, la rinegoziazione della dialettica edipica e, forse, ancor più di quella preedipica. In questo senso, la creazione anzitutto nella mente, di uno spazio per il terzo entro la coppia è un percorso essenziale e non sempre facile da affrontare. Inevitabilmente, infatti, ci si scontra con la ridefinizione di identità, ruoli e funzioni che, su un piano fantasmatico oltre che reale, individuale e di coppia, determinano la strutturazione di nuovi equilibri. Difatti l’assunzione della funzione genitoriale comporta spesso un periodo di crisi nella coniugalità, che determina un riassetto della personalità individuale e di coppia (attacco al senso di identità). Ma il tipo di legame che la coppia ha stabilito consente di elaborare meglio o peggio questo cambiamento, questa crisi evolutiva.
Il modo in cui la coppia si riorganizza affettivamente in relazione alla nascita dei figli ha un’influenza rilevante sulle modalità con cui ciascuno dei coniugi si assesta nel proprio ruolo di madre e padre e si relaziona al figlio. Alcune coppie ad es. possono accogliere il passaggio dall’essere in due all’essere in tre come conferma evolutiva per sé e per il proprio legame, utilizzando in questo modo la nascita del figlio. La presenza di un figlio, prima immaginata e poi reale, porta quindi i partner alla rivisitazione del proprio passato da un vertice osservativo diverso, che comporta il confronto con le proprie figure genitoriali, nell’identificazione con i propri genitori e con il proprio Sé bambino. In situazioni patologiche può accadere che alcuni contenuti psichici siano negati e scissi costituendo sacche di non pensabilità nella coppia, così come è possibile trovarsi di fronte ad una quota di aspetti che viene invece agita entro la relazione. Naturalmente tutto questo ha un peso nella relazione con il bambino.
La riproposizione del passato comporta il rischio molto evidente e molto presente che si riattivino schemi negativi legati alla propria infanzia, in cui ci si identifica con le rappresentazioni interne dei propri genitori e il bambino con il se stesso bambino, in una riattualizzazione dei fantasmi di cui Selma Fraiberg (1980) parlava quando descriveva l’importanza di intervenire sulle relazioni nascenti facendo luce sugli aspetti inelaborati dei genitori che figurano come fantasmi nella camera dei bambini; laddove il sintomo del bambino andrebbe ad esprimere il nodo conflittuale irrisolto relativo alla storia passata dei genitori. Condizioni di cui ci parla diversamente Palacio Espasa (2001) quando induce a riflettere sulle proiezioni narcisistiche dei genitori, ovvero sull’ombra di quelle condizioni genitoriali inelaborate ed inelaborabili che, proprio perché tali, rischiano di ripresentarsi nella relazione con i figli, ricadendo sul bambino come un peso che incide sul suo sviluppo oltre che sulle interazioni familiari. In questo contesto il desiderio del figlio, di un figlio immaginato e fantasticato, rischia di scontrarsi con quello reale, il bambino della notte rischia di scontrarsi col bambino del giorno (Vegetti Finzi, 1990) e chiama dunque i genitori ad una resa dinanzi alla realtà e ad una rinegoziazione che sia in grado di condurre verso l’accoglimento e l’accettazione del bambino reale. Ma le caratteristiche reali del bambino possono anche rappresentare un elemento di grande sostegno e di conferma per il narcisismo genitoriale (sentimento di adeguatezza), pensiamo ad es. a quanto un neonato attivo, vitale, responsivo possa rassicurare il genitore inesperto e ansioso rispetto al proprio ruolo.
“Si parte dal presupposto che ogni bambino è portatore di un universo di bisogni propri. La scuola ha la pretesa di dar loro una risposta riducendoli a quelli rubricabili sotto la dizione “bisogno di conoscere e di apprendere”. Ma anche l’insegnante è portatore di un universo di bisogni e, certamente, non ha scelto il suo lavoro soltanto per rispondere al bisogno di conoscere del bambino” (Brutti et al., 1993, p. 114).
Solitamente le cause del disadattamento scolastico vengono distinte secondo due diversi approcci: quello che tende ad incriminare l’istituzione scolastica come unica responsabile perché inadatta ad andare incontro ai bisogni dell’individuo in crescita e a stare al passo con i tempi che mutano le condizioni e le possibilità dell’apprendimento; quello teso a individuare nel bambino deviante l’origine dell’insuccesso scolastico, nelle sue incapacità, nel suo atteggiamento (pigrizia, oppositività, disinteresse, sfida) e nelle sue difficoltà. Ancora un altro aspetto pone in luce l’origine familiare dell’insuccesso, tenendo conto dell’influenza dei genitori e del loro stile educativo, dell’importanza che questi assegnano all’apprendimento e alla cultura. E’ chiaro che, senza entrare in una polemica sterile che tende unicamente ad evidenziare le cause del fallimento, questi fattori inevitabilmente s’intrecciano e si codeterminano. Ma da un punto di vista clinico, va considerato il peso psichico che tali dimensioni assumono nel bambino incidendo sulle capacità e soprattutto sul desiderio di apprendere (istinto epistemofilico).
L’insuccesso scolastico può essere strettamente vincolato al rifiuto scolastico e all’inibizione scolastica, in quanto esito o concausa.
L’inibizione scolastica porta con sé una sofferenza del bambino, che è incapace di concentrarsi sul compito nonostante il desiderio di imparare. Può o meno associarsi ad altre condizioni inibitorie (quali l’inibizione dei processi conoscitivi e affettivi) ed in genere esprime un’organizzazione nevrotica conflittuale in cui il desiderio epistemofilico non è disgiunto dalle pulsioni voyeuristiche sicchè è contemporaneamente fonte di ansia e di colpa e, pertanto, rimosso. In altri casi il sapere sembra connesso ad una fantasmatica di rivalità verso il padre.
Con tale terminologia si descrive un rifiuto massiccio e irrazionale della scuola da parte del bambino che, se costretto, si oppone con reazioni molto intense, di panico e forte ansia. In genere tale condizione viene ascritta alle forme d’ansia da separazione, che si legano alle relazioni con le figure genitoriali, in altri casi, invece, si ricollegano alle più ampie condizioni di ansia e fobia sociale di tipo nevrotico. La fobia scolastica può presentare un picco intorno ai 5-7 anni, verso i 10-11 anni e poi in adolescenza e va certamente ben distinta dal disinteresse verso l’istituzione scolastica, così come da condotte oppositive che risentono del desiderio di autonomizzazione e svincolo che è parte del diversi momenti evolutivi (l’angoscia rappresenta l’elemento discriminante).
L’insorgenza può essere immediata all’ingresso nella scuola, sopraggiungere successivamente (ad es. dopo un periodo di vacanza o alla ripresa del nuovo anno scolastico) o più gradualmente (dopo un insuccesso o un rimprovero da parte dell’insegnante). Le reazioni del bambino possono andare dalla protesta aggressiva, alle crisi di panico, alle somatizzazioni (cefalee, mal di pancia, vomito) e inducono naturalmente il genitore a prendere provvedimenti che talvolta rischiano di rafforzare tali manifestazioni (sia per eccessiva costrizione, sia per eccesso di tolleranza). Il problema, allora, si pone nell’aiutare i genitori a comprendere il senso di questa manifestazione psicopatologica sul piano emotivo, al di là di un intervento di corretta prassi educativa e a contenerli nell’ansia che le manifestazioni di panico del bambino suscitano in loro. Un intervento psicoterapeutico individuale e familiare è spesso consigliato, soprattutto tenendo conto delle componenti nevrotiche che inevitabilmente si legano a tale condizione.
Sono connesse ad un certo tipo di apprendimento (lettura, scrittura e calcolo) senza produrre difficoltà in altri campi, tra queste si individuano la dislessia, la disgrafia e la discalculia.
Dislessia-disortografia: difficoltà ad acquisire la lettura all’epoca abituale e al di fuori di insufficienze o deficit settoriali. E’ caratterizzata da una confusione di grafemi la cui corrispondenza fonetica è vicina o la cui forma è simile, da inversioni e omissioni nella lettura del testo scritto. A livello della frase, esiste una difficoltà ad impadronirsi del ritmo e delle pause. La comprensione del testo letto è spesso superiore a ciò che la decifrazione farebbe pensare, tuttavia è raro che la totalità dell’informazione sia appresa e lo scarto cresce man mano che aumenta l’età del bambino e che aumentano le richieste provenienti dalla scuola. Spesso si accompagna a difficoltà ortografiche (confusioni, omissioni) e non può essere diagnosticata prima dei 7 anni, dal momento che prima di quell’età gli errori di lettura sono piuttosto comuni. Talvolta si associa ad un ritardo nell’acquisizione del linguaggio e spesso si riscontrano disturbi comportamentali di tipo impulsivo. Dal punto di vista psicoaffettivo è difficile stabilire se le perturbazioni affettive siano iniziatrici o secondarie; va detto, inoltre, che solitamente l’apprendimento dovrebbe essere facilitato dall’acquietarsi dei conflitti psicoaffettivi in un’epoca in cui avviene un investimento sublimatorio delle conoscenze scolastiche. In relazione alla componente psicoaffettiva è possibile integrare una rieducazione logopedia specifica, attenta a non colludere con l’oppositività e l’ansia da prestazione che spesso accompagnano tale problematica, ad un trattamento psicoterapeutico.
La disgrafia si riferisce ad una difficoltà nella scrittura, la cui qualità è insufficiente in assenza di qualsiasi deficit neurologico o intellettivo che possa spiegare tale carenza. E’ difficile collocare il problema della disgrafia per le molteplici interferenze con la motricità in sé e con il rapporto che il bambino ha con gli adulti di riferimento (genitori, insegnanti), con il valore simbolico della scrittura e con il valore che l’apprendimento ha nella dinamica familiare. raggiunta la maturità motoria e manuale, la qualità dell’insegnamento diventa una variabile importante, che assume un peso inferiore invece finché il bambino non abbia raggiunto tale maturità (fino ai 6 anni circa).
Spesso la disgrafia si associa ad altre difficoltà: a disordini dell’organizzazione motoria (impaccio motorio, instabilità, disprassie), alterazioni del linguaggio (dislessia e disortografia), disordini nell’organizzazione spazio-temporale (orientamento spaziale, organizzazione sequenziale del gesto), alterazioni affettive (ansia, inibizione, fino a quadri nevrotici fobici). L’approccio terapeutico dipende dunque dalla qualità delle difficoltà associate al problema principale e dal suo significato all’interno dell’organizzazione psichica del bambino: la rieducazione grafomotoria e psicomotoria è essenziale quando, ad un esame neuropsichiatrico, emergano anche alterazioni spazio-temporali e altri disturbi motori; l’approccio psicoterapeutico va invece integrato e/o preferito quando siano evidenti componenti di natura affettiva, conflittuale, ansiogena, parti di una struttura nevrotica.
La discalculia è certamente meno diffusa, ha a che fare con esiti negativi nel primo apprendimento del calcolo e, se non si lega a fattori di natura prassica e motoria, può associarsi a condizioni fortemente nevrotiche e fobiche.
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