Sebbene “il suo ruolo è nonostante tutto necessario” (Aulagnier, La violenza dell’interpretazione, 1975), il padre ha ricevuto, per molto tempo, scarsa attenzione nell’ambito della letteratura e della ricerca contemporanea, tanto da essere chiamato il “genitore dimenticato della teoria psicoanalitica” (Ross, Fathering. A review of some psychoanalytic contributions on paternity, 1979).
Per quanto, infatti, si parli in generale di figura parentale, la teoria psicoanalitica dello sviluppo precoce ha tradizionalmente posto maggiore enfasi sulla madre o sul punto di vista infantile. Di conseguenza, può risultare difficile definire la funzione paterna nell’allevamento e ancor di più nella costituzione dell’identità di genere (terreno, questo, che non gode ancora di una teoria compiuta), benché a partire dal processo di scena primaria e poi dall’Edipo, il padre, come terzo, svolga un ruolo strutturante nel processo di separazione-individuazione di entrambi i generi sessuali.
Anche i più recenti studi sul genere femminile hanno prestato maggior attenzione alla relazione primaria madre-figlia, nel continuo gioco identificatorio di allontanamento e vicinanza. La figura paterna rimane sullo sfondo, anche se è universalmente riconosciuto che il padre compare nella vita del/la figlio/a molto precocemente e in modo non semplice o privo di conseguenze.
Quando ancora l’infante vive l’illusione della propria onnipotenza creativa grazie alla fusione simbiotica con la madre (Winnicott, Gioco e realtà, 1971), il padre è già partecipe della sua vita in due modi:
Nella fase precoce dello sviluppo, un padre normalmente devoto, parafrasando Winnicott, ha una funzione di holding: la parte femminile di sé gli permette di contenere e proteggere la diade madre-infante (Galdo, L’origine dell’amore per il padre, 1993). Nelle sue attività di cura, si confonde con la funzione allevante della madre, quindi, si inscrive con le sue qualità nel vissuto corporeo del/la figlio/a, anche se con uno statuto meno pregnante e non differenziato da quello materno.
Quando in seguito intrude nella diade, diventa un oggetto di investimento libidico per il/la bambino/a e insieme provvede alle necessità erotiche ed emozionali della sua compagna, che lo riconosce (anche nel senso letterale di “conosce nuovamente”) come partner e come funzione. Questo aspetto risulta essenziale per non prolungare la relazione simbiotica oltre i suoi normali limiti (Guerriera, Il padre nella mente, 1999).
Scrive, infatti, Morra (The importance of fathers: A psychoanalytic Re-Evaluation, 2002): “Il padre è sempre presente nella mente della madre ed il modo in cui è presente è di enorme importanza. È importante che la madre si senta supportata e protetta dal padre. [...] Se i padri non danno alle madri gratificazione narcisistica e sessuale sappiamo che al bambino verrà richiesto dalla madre, più o meno inconsciamente, di compensare questo…”
Secondo quanto spiega Aulagnier ne “La violenza dell’interpretazione” (1975), inizialmente il/la bambino/a trova le ragioni dell’esistenza paterna solo in rapporto alla madre, ma successivamente si rende conto che quest’altro senza seno ha qualcosa da dire e può offrire un piacere anche a lui/lei. Ciò è tanto più vero se si pensa che l’incontro con la voce del padre non si compie nel registro del bisogno, ma attraverso una dimensione principalmente psichica.
D’altronde, l’investimento libidico assume ancor prima una direzione opposta, dal padre al/la bambino/a, che inizialmente non è considerato/a un equivalente fallico, bensì la prova della potenza fallica del pene paterno. Non si mette mai in risalto il desiderio del padre, se non nella capacità della madre di riconoscerlo (in caso contrario si parla di forclusione). Aulagnier, invece, sottolinea con forza che non bisogna dimenticare il peso dell’esistenza di un desiderio del padre nello sviluppo psichico del/la bambino/a.
“Questo significa dimenticare che, a meno di condividere l’illusione infantile circa l’onnipotenza della madre, l’esclusione del padre implica da parte sua un accettare volentieri di escludersi, che l’eventuale desiderio di castrazione della madre nei suoi confronti è tanto più efficace in quanto incontra nel partner un desiderio di svolgere questo ruolo di vittima“.
Secondo Eugenio Gaddini (Formazione del padre e scena primaria, 1974; La formazione del padre nel primo sviluppo infantile, 1975), la “nascita del padre” si colloca non in un fatto puntuale, singolo e sporadico, ma in un processo di scena primaria, che permette al/la bambino/a, sulla base di spinte innate, di differenziare il Sé dall’oggetto.
A partire dal terzo-quarto mese di vita fino alla seconda metà del terzo anno, lo scarto che la madre introduce gradualmente tra i bisogni dell’infante e il loro appagamento, lo porta a esperire con continuità la differenza tra sé e l’oggetto, la disillusione sulla propria onnipotenza e la percezione della dipendenza e del limite. In questo scarto fantasmatizza la madre estranea, sporadicamente presente anche in precedenza, quale madre irriconoscibile, momentaneamente indisponibile (perché dis-tratta da un altro, il padre?). L’infante ha investito un oggetto da cui dipende e la sua impotenza scatena meccanismi difensivi arcaici perché viene percepita come aggressione da fuori e pericolo di disintegrazione da dentro. Il riconoscimento graduale di un secondo oggetto passa attraverso una serie di cambiamenti della figura materna, prima in un’immagine tremendamente ingrandita, praticamente raddoppiata in volume e numero di arti, poi in una serie variabile di immagini intermedie.
Nello sviluppo infantile, secondo E. Gaddini, il padre è dapprima un prodotto della madre onnipotente. È probabile che i primi elementi paterni vengano percepiti in base alla loro diversità rispetto alla madre, come alterazione di un’esperienza eccitante e dolorosa, vissuta nel corpo.
Questi elementi di estraneità irrompono nel vissuto infantile a minacciare la fusione, a creare discontinuità, a testimoniare lo scarto tra il bisogno dell’infante e la risposta di accudimento non puntuale della madre.
Essi entrano a far parte del Sé infantile, permeandone l’identità, sebbene non sono riconosciuti nella loro diversità, ma vengono confusi con l’esperienza somatica del rapporto simbiotico materno: la madre è percepita con tutti gli attributi maschili e femminili e l’indistinzione tra sé e l’altro genera nel bambino la bisessualità originaria.
In seguito, il padre è un derivato della figura materna come parte scissa: la madre estranea è la prima percezione di una separazione, dell’esistenza di un oggetto a cui rapportarsi. Il dolore della perdita, la sensazione di disintegrazione, l’aggressività verso l’esterno e ad un tempo persecutoria (Klein, La psicoanalisi dei bambini, 1923) rendono l’altro un temibile straniero. Il padre, gravitando all’inizio ancora nell’orbita materna, è di conseguenza investito:
Infine, il padre diventa un oggetto esterno con il quale interagire in modo attivo, unico e originale. Il passaggio dalla madre estranea alla madre esterna, quindi separata dal soggetto, apre alla relazione oggettuale realistica con la madre e alla possibilità di scoprire altri oggetti di investimento, a cominciare dal padre, fino al complesso edipico, in cui la strutturazione triangolare è il risultato dell’intersecarsi delle esperienze di scena primaria con la scoperta delle differenze sessuali.
Il padre si interpone tra madre e figlio/a: la Legge del Padre, teorizzata da Lacan, rappresenta quel necessario e impossibile svezzamento dell’infante dal seno e viceversa della madre dalla bocca del lattante (Parat, 1999), perché comporta la rimozione del desiderio materno e l’accesso al simbolo, il mondo, gli altri.
Il padre è il garante dell’esistenza di un ordine culturale costitutivo del discorso, di cui non è il legislatore onnipotente, perché anch’egli vi si sottomette per diventare un soggetto (Aulagnier, 1975). Escluso dal registro della sensorialità, il padre ha un ruolo metaforico e rappresenta la legge del linguaggio che permette al/la bambino/a di acquisire la sua identità. Egli apre la crescita psicologica infantile alla cultura, alla socialità, all’ordine delle generazioni e alla differenza dei sessi.
Nella trasmissione del nome, infine, paga il debito con il suo genitore, debito che ora passa al/la figlio/a (Bydlowski, Il debito di vita, 1997) permettendogli di divenire genitore a sua volta, perché lo/a separa dal rapporto incestuoso con la madre, avvicina alla dimensione simbolica, ne sostiene lo sviluppo psichico, si offre come modello di identificazione.
Secondo Lichtenberg (Psicoanalisi e sistemi motivazionali, 1989), il/la bambino/a non è una vittima passiva: ogni sesso è portatore di dati biologici, modelli innati di relazionalità, di attività e potenzialità di piacere e eccitazione sessuale, che individualizzano mascolinità e femminilità. Maschi e femmine hanno qualità sensoriali diversamente sviluppate e differenti comportamenti emozionali e motori: questo influenza il modo in cui gli adulti danno significato e rinforzano l’appartenenza a un genere.
Ad esempio, le neonate hanno risposte sensoriali meglio organizzate dei maschi, per cui la sollecitazione può essere più leggera per le prime e più energica per i secondi.
La conseguenza è un’attribuzione di modelli da parte della fantasmatica genitoriale, di qualità di genere legate a aspettative consce e inconsce delle figure di accudimento, che l’adulto trasmette a maschi e femmine. Nei primi due anni, i genitori rinforzano quei comportamenti considerati appropriati al ruolo sessuale e il/la bambino/a li apprende indipendentemente dalle motivazioni interne.
Tra i 18 e i 24 mesi, l’identità di genere è stabilita probabilmente in maniera immutabile e se la scoperta della differenza sessuale produce ansia, i maschi integrano più facilmente delle femmine la consapevolezza del genere per la visibilità e manipolabilità dei propri genitali, anche se ciò è influenzato dall’atteggiamento genitoriale conscio e inconscio verso l’attività masturbatoria.
L’accesso al padre si configura diversamente per maschi e per femmine, soprattutto in rapporto all’Edipo. Per superare l’ansia traumatica promossa dalla scoperta della differenza anatomica tra i sessi, il/la bambino/a ha bisogno di sentire che il proprio sesso è riconosciuto e amato dai genitori.
Il padre è per il maschio il principale modello identificatorio, ma l’amore che gli porta la figlia fa sì che consistenti aspetti della personalità del padre, in quanto altro e in quanto maschio, si armonizzino con lo sviluppo della femminilità della bambina.
Per la costituzione dell’identità femminile, è peculiare la presenza della funzione paterna in quanto “altro”, diverso dalla madre come oggetto e come genere sessuale. In altri termini, l’amore del padre e per il padre permette alla figlia di fuoriuscire dalla relazione indistinta con la madre, rinunciando alla fantasia onnipotente bisessuale. È in questa rinuncia che la bambina si conferma donna.
Talvolta, purtroppo, si osserva nella clinica una situazione in cui la madre si pone come oggetto d’amore esclusivo e fusionale, ostacola l’Edipo, promuove il divieto d’incesto, origina identificazioni patogene e disturbi dell’identità.
Tutto questo, però, non sarebbe possibile senza la collusione del partner-padre: nel caso di uno sviluppo sano, egli deve essere presente, investire la figlia nel riconoscimento della propria sessuazione, soprattutto non deve delegare alla madre la funzione di rappresentarlo.
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