Gaddini (Sull’imitazione, 1969) distingue l’imitazione dall’introiezione e dall’identificazione, ma le prime due sono i presupposti essenziali, la condizione senza la quale il processo identificatorio non potrebbe aver luogo.
Come è noto, nelle prime settimane di vita, l’infante percepisce non lo stimolo in quanto tale, ma la personale modificazione corporea che ne segue e su queste primitive percezioni imitative degli oggetti e sulle loro tracce mnemoniche ha un peso notevole l’equilibrio della madre nel dispensare gratificazioni e frustrazioni ai bisogni infantili.
Il modello fisico “imitare per percepire” diventa psichicamente “imitare per essere” e ne è prototipo l’allucinazione: l’oggetto non è percepito come tale ma come parte del sé fisico e in sua assenza l’imitazione ripristina in modo onnipotente e magico l’illusoria fusione.
Accanto all’imitazione, che appartiene all’area psico-sensoriale (essere l’oggetto), l’introiezione caratterizza l’area psico-orale (avere l’oggetto), più esposta a conflitti.
I primi affetti si modelleranno su questi paradigmi psichici originari: così, ad esempio, se la rivalità e l’invidia sono primarie, la prima è più vicina al modello percettivo-imitativo, quindi più arcaica, mentre la seconda è più legata al modello incorporante-introiettivo.
Probabilmente l’invidia insorge quale distorsione patologica della rivalità primaria, presupponendo già una certa differenziazione sé-oggetto. Inoltre, nella rivalità prevarrebbe l’emulazione, nell’invidia la distruzione. Il termine invidia, infatti, che Freud (Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi, 1925) associa principalmente all’invidia fallica e, quindi, anticipatrice delle dinamiche edipiche della gelosia, rimanda al sentimento di mortificazione per una mancanza che si trasforma in rancore e aggressività nella contemplazione che l’altro possieda un vantaggio superiore.
Di diversa opinione, M. Klein (Invidia e gratitudine, 1957) ipotizza l’esistenza di un’invidia originaria, innata, del seno della madre e della sua creatività. Quale più precoce esternalizzazione dell‘istinto di morte, nasce in rapporto ad oggetti parziali, quindi all’interno di una relazione duale, mentre la gelosia, in quanto basata sull’amore e sul possesso dell’oggetto amato attraverso la rimozione del rivale, appartiene ad un rapporto triangolare e ad uno stato che già riconosce la distinzione tra gli oggetti.
Con l’invidia, l’essere umano mira a essere buono come l’oggetto e se non ci riesce, allora tenta di guastare la bontà dell’oggetto, fonte del suo sentimento. Nel caso dell’invidia originaria, però, è minacciato anche lo sviluppo attraverso i normali meccanismi schizoidi, in quanto si prova a rivolgere il proprio rancore rendendo cattivo l’oggetto da cui si dipende completamente, con la conseguenza che è difficile compiere delle buone introiezioni.
Forti sentimenti di invidia generano disperazione: non c’è un oggetto ideale, l’Io senza buone introiezioni si impoverisce, gli oggetti distrutti sono persecutori e colpevolizzanti.
Le differenze tra E. Gaddini e M. Klein sulla primarietà della rivalità per l’uno e dell’invidia per l’altra è giustificata dalle teorie di riferimento, che costituiscono contrastanti punti di partenza:
Al di là della percezione dei confini fisici e della consapevolezza di avere pensieri di cui gli altri non sono a conoscenza (per Aulagnier, Le droit au secret, 1976, è vitale per l’Io avere questo senso di frontiera che gli arroga il diritto di scegliere cosa comunicare di sé), ci sono sentimenti ignoti anche all’individuo: rivalità e invidia sono spesso segreti e inconfessabili a sé e agli altri perché radicati nella vergogna e nella colpa. Di conseguenza mobilitano potenti difese.
Secondo M. Klein (1957), l’invidia si alimenta di sentimenti primitivi e quindi ha carattere onnipotente: essa nascerebbe a partire da una carenza nella relazione primaria, da una distorsione della rivalità primaria a causa di una difettosa triangolazione. Nella sua riattualizzazione, la rabbia per il vissuto di impotenza e lo scoraggiamento si interseca con il senso di colpa. L’idealizzazione dell’oggetto ammirato impedisce di vedere le proprie qualità perché manca un’adeguata introiezione che renda il soggetto “buono”. Lo stesso Super-Io critico impedisce ogni creatività vitale e diviene persecutorio.
Per un esempio letterario sull’invidia e la rivalità, si rimanda al racconto di Nina Berberova, “L’accompagnatrice” (1985), storia del legame tra una giovane pianista, povera e fisicamente insignificante, e una cantante lirica di successo, bella e vitale.
L’io narrante è Sonecka, che ripercorre la sua storia sullo sfondo della rivoluzione russa: il vergognoso e muto segreto della sua origine (è il frutto illegittimo dell’amore tra la madre e un giovane allievo) e l’incontro, nella Pietroburgo del 1919, con Marija Nikolaevna Travina, che le chiede di seguirla al piano mentre canta.
Rabbia, impotenza e senso di nullità si alternano a amore e ammirazione e alimentano il desiderio ossessivo di Sonecka di distruggere Marija, tanto da rinunciare all’amore di un uomo, da non provare compassione per la sofferenza altrui, né rimorso per conquistare la fiducia della cantante, con il solo scopo di danneggiarla (cosa che sembra essere sul punto di concretizzarsi quando Sonecka scopre la sua relazione adulterina).
Dopo il suicidio del marito, Marija parte per l’America con l’amante e lascia Sonecka in Europa.
A distanza di tempo, la pianista vive in una grigia solitudine, indifferente anche alla morte della madre, ignara dei propri talenti, invisibili ai suoi occhi e sconosciuti come il padre.
L’anoressia è uno dei disturbi del comportamento alimentare. Caratterizzata dal rifiuto di mantenere il proprio peso al di sopra della soglia minima per età e altezza, dal terrore di ingrassare, da un’immagine corporea distorta e da amenorrea, l’anoressia è diffusa soprattutto nelle donne, il che fa ipotizzare che abbia una relazione specifica con la strutturazione dell’identità di genere femminile.
I vari contributi psicoanalitici riconoscono per lo più nella natura simbiotica della relazione madre-figlia (difettoso processo di differenziazione e separazione) il denominatore comune alle varie storie cliniche di anoressia.
Kestemberg e Decobert (La faim et le corps, 1972), ad esempio, sostengono che in questa patologia è sempre presente un vissuto di natura fusionale con la madre. Il padre è solitamente percepito come un oggetto parziale di una madre onnipotente e in adolescenza non si può scegliere la propria identità e il proprio sesso, dunque rompere con il narcisismo primario. Al contrario, il conflitto è così intensamente riattivato da produrre angoscia e regressioni notevoli.
Maffei e Nissim (Appunti su separazione e morte nell’anoressia, 1987) sviluppano l’idea che il vissuto della giovane anoressica sia sostenuto da una madre incapace di accettare la figlia quale essere desiderante: pronta a colmare immediatamente ogni richiesta, cortocircuitandola sulla dimensione del cibo, ne ostacola ogni apertura all’altro e si illude di annullare la separazione e la mortalità. La figlia, di conseguenza, si difende dalla simbiosi fagocitante affermando il desiderio nell’unico modo che nega la presenza materna, la morte. Di fronte al genitore intrusivo e devastante, rivendica il diritto ad un vuoto dell’esistenza.
Gatti (L’anoressia mentale, 1989) definisce elementi distintivi dell’anoressia mentale:
Da una prospettiva diversa, H. Bruch (Anoressia, 1988) da’ una connotazione sociale al disturbo anoressico, “espressione di un concetto di sé deficitario” e della strutturazione del Falso Sé winnicottiano. La ragazza anoressica prima della comparsa dei sintomi, appare una giovane particolarmente matura, responsabile, seria, attendibile, perfezionista e alla ricerca dell’approvazione altrui, ma con la sindrome il suo comportamento da conformista e compiacente, si trasforma in ostinato e ingannevole.
Kaplan (Perversioni femminili, 1991) mette l’accento in particolare sull’attualità, considerando l’anoressia una soluzione ai dilemmi che si associano al diventare donna. L’anoressica, infatti, è un’adolescente o una donna che cerca di venire a patti con la propria genitalità e attraverso un corpo asessuato e ambiguo sfida il potere della sessualità adulta. I padri delle anoressiche sono spesso uomini molto ambiziosi nel loro ruolo professionale, poco disponibili emotivamente in famiglia, dove la figlia è stata assunta dai genitori a terzo membro della relazione coniugale. L’unione con la madre, ad esempio, è un’unione erotica mascherata.
Secondo Chasseguet Smirgel (La lotta delle donne per l’autonomia evidenziata dai disturbi alimentari, 1994) esiste durante la pubertà il desiderio di sfuggire all’ordine biologico. Ella ricorda sia i Laufer (1984), che definiscono il crollo nell’adolescenza come il rifiuto inconscio di un corpo sessuato, sia Stoller e Herdt (1982) per il concetto di protofemminilità.
Nella pubertà e nell’adolescenza, la donna si trova a dover lottare in modo specifico per separare il proprio corpo dalla madre e i disturbi dell’alimentazione costituiscono una delle espressioni maggiori di questa lotta: nell’ambito di una fragile triangolazione edipica, il proprio corpo è, allo stesso tempo, in modo persecutorio, il corpo materno, imposto dall’esterno, dall’ordine biologico rappresentato dalla madre. La patologia, allora, costituisce un tentativo per trovare la separatezza, l’autosufficienza, in un’illusione autarchica.
Kaplan (1991) e Chasseguet Smirgel (1994) danno un’opposta interpretazione del sintomo anoressico:
Sia Kaplan sia Chasseguet Smirgel valorizzano due aspetti dell’azione ripetuta attraverso il sintomo:
L’anoressia colpisce soprattutto le donne perché l’acquisizione dell’identità sessuale femminile si svolge lungo un cammino più accidentato e la conquista per la separazione personale dall’oggetto primario presenta peculiari difficoltà. L’identità femminile, infatti, è solitamente contrassegnata dalla continua oscillazione tra nostalgia di fusione e spinte all’individuazione.
Se la relazione con la madre si è caratterizzata per eccesso o difetto di supporto narcisistico, determinando “buchi” nella formazione dell’identità personale ed il padre non si è stagliato con la sua alterità nell’universo carente e confusivo, la fragilità del sé si muoverà su pseudo-identificazioni. Il trauma separativo si concretizza in una sorta di ferita del corpo che non mentalizzata esplode in adolescenza quale rifiuto della sessuazione. Il corpo dell’anoressica, né madre né padre, testimonia di questo dramma. L’onnipotenza è diniego della realtà, della differenza, della separazione e della morte, ma anche di un’unica identità sessuata.
Una dinamica del potere, in cui la figlia costringe la madre a tenere sempre il suo sguardo sul corpo emaciato, può rispondere o alla fantasia matricida o al tentativo di sedurre la madre in un abbraccio a rischio mortale.
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