Per quanto concerne tutti i quadri psicopatologi che verranno di seguito illustrati (in questa come nelle successive lezioni), si è fatto ricorso alla trattazione proposta da Marcelli (1982) a cui si rimanda per approfondimenti.
Il movimento e il corpo
Il movimento del corpo va sempre colto in rapporto ad una doppia polarità: la prima relativa all’intenzionalità che ne giustifica l’agire, la seconda relativa alla relazione con l’ambiente che può influenzarlo. In questo senso l’acquisizione di nuove capacità di movimento non può intendersi separata dal modo in cui il bambino si rappresenta e si sente agire, da un lato, e dal modo in cui l’ambiente lo stimola, accoglie e risponde al suo agire, dall’altro. Ciò, naturalmente, va di pari passo con l’importanza che, nello sviluppo infantile anche dell’area della motilità, assume la dimensione affettiva della relazione, accanto ad ovvi aspetti organici e fisiologici (maturazione delle vie motrici). Com’è noto, inoltre, il corpo rappresenta il primo veicolo di espressione dei bisogni, della spontaneità e del disagio infantile, ancor più in età precoci.
Rappresenta uno dei motivi più frequenti di consultazione (il problema riguarda soprattutto i maschi di età compresa tra i 5-6 e i 10-12 anni) da parte di genitori spesso estremamente infastiditi dai continui movimenti del figlio (non sta mai fermo, muove tutto, non ascolta, mi sfinisce), particolarmente ansiosi e in difficoltà rispetto alla gestione del problema. Altrettanto di frequente, la richiesta proviene dalla scuola e dagli insegnanti che, oltre a riscontrare difficoltà nel bambino sul piano motorio (non sta mai seduto nel banco, si alza sempre), riconoscono anche delle difficoltà sul piano dell’attenzione e della concentrazione che possono complicare, e a lungo andare incidere negativamente, sui processi di apprendimento. Un approccio educativo troppo rigido, che non tiene conto dei bisogni evolutivi (ricordiamo ad es. che tra i 2-3 anni la capacità attentiva del bambino è naturalmente labile), può facilitare l’insorgere del problema; così come, di fronte all’intolleranza dell’ambiente, il bambino con instabilità psicomotoria può incrementare una condotta che rischia a sua volta di cristallizzarsi.
Il contesto psicologico è piuttosto vario, l’instabilità psicomotoria infatti può essere parte di una condizione reattiva ad una situazione traumatica o ansiogena. In alcuni casi l’instabilità sembra presentarsi isolata, non vi sono difficoltà nelle linee evolutive e l’equilibrio psicoaffettivo non sembra disturbato; ancor più, dunque, si pone il problema della risposta ambientale (in termini di tolleranza e di richieste). In altri casi tale condizione si presenta in associazione con enuresi, alterazioni del sonno, difficoltà scolastiche, condotte aggressive, provocatorie, pericolose, tendenza alla distruttività e all’autolesionismo. Talvolta tali condotte hanno il significato di una ricerca d’autopunizione e possono accompagnarsi a manifestazioni di natura nevrotica o pre-psicotica (senso di colpa, ansia persecutoria), spesso, inoltre, risultano una reazione a vissuti fortemente depressivi (difesa maniacale) che attengono alla relazione col materno. Per questa ragione l’instabilità psicomotoria può rappresentare un sintomo afferente a diverse configurazioni psicopatologiche. Dal punto di vista familiare si ritrova spesso una costellazione di madre troppo vicina (una vicinanza che spesso maschera fantasmi di morte e aggressivi) e padre assente, squalificato nel rapporto col figlio. Da un punto di vista terapeutico la risposta non è univoca e deve tener conto della complessità della problematica e della reazione familiare; si può quindi prevedere un intervento psicomotorio, un approccio rieducativi e, soprattutto, un intervento psicologico-psicoterapeutico che coinvolga sia il bambino, sia i genitori.
Consistono nell’esecuzione improvvisa, involontaria e imperiosa di movimenti ripetuti che solitamente spariscono durante il sonno e che la distrazione o la volontà possono temporaneamente sospendere. Compaiono per lo più verso i 6-7 anni e si instaurano poco alla volta. Prima del sopraggiungere del tic si può avvertire un elevato livello di tensione che il tic contribuisce a scaricare, divenendo una via di scarico privilegiata delle tensioni interne. Il significato del tic non è univoco; la sua persistenza, inoltre, può servire da ancoraggio ad ulteriori conflitti di diversa natura e può quindi prendere significati successivi, così come può perdere di significato per divenire un modo d’essere radicato nel corpo. Spesso si associa all’instabilità motoria; difatti una condizione ansiosa è ciò che fa da sfondo alla configurazione del tic, sia essa momentanea, sia perdurante. Anche l’associazione con alcuni tratti ossessivi è frequente (ma è importante distinguere i tic dalle stereotipie motorie di carattere ossessivo e da quelle di natura psicotica); si tratta di bambini che controllano la propria aggressività e in questo caso il tic può assumere non tanto il valore di una scarica, quanto di un atto aggressivo contro se stesso. E’ raro che il bambino parli spontaneamente del problema, che talvolta tende a negare; ma tale condizione di passività in realtà esprime una forte opposizione. Non è raro che i tic siano accompagnati da sentimenti di vergogna e di colpa che, spesso, risultano rafforzati dall’ambiente. Difatti la risposta dell’ambiente alle prime manifestazioni è fondamentale, derisioni, proibizioni e rimproveri possono accrescere vergogna, ansia e senso di colpa, rafforzando le manifestazioni ticcose.
La tricotillomania definisce il bisogno di accarezzarsi, arrotolarsi, tirarsi i capelli con la conseguenza che, spesso, possono presentarsi larghe macchie di alopecia. Molto spesso si insiste su un significato autoerotico e, insieme, autoggressivo. Questa condotta, d’altra parte, può presentarsi in condizioni di frustrazione o carenza.
L’onicofagia (il mangiarsi le unghie) spesso si manifesta in soggetti ansiosi che conservano tale comportamento anche in età adulta. Talvolta si accompagna ad instabilità ed enuresi. Anche in questa condotta si trova uno spostamento dal piano autoerotico a quello autoaggressivo, si riferisce infatti all’associazione tra il piacere della suzione ed un equivalente masturbatorio con connotazione punitiva.
L’ontogenesi del linguaggio si sviluppa intorno a tre tappe fondamentali:
L’acquisizione del linguaggio rappresenta una tappa fondamentale anche dello sviluppo psicoaffettivo, essa ha, infatti, un valore ed un significato importanti nella dinamica relazionale con l’ambiente di accudimento, in termini di reciprocità, di scambio, e, soprattutto, di attivazione di un sistema simbolico e di accesso ad una dimensione di “separatezza” (e di distanza emotiva oltre che fisica) dall’altro: il linguaggio si sviluppa, infatti, in assenza dell’altro per comunicare con l’altro.
Avendo escluso componenti relative a deficit acustici, le alterazioni del linguaggio vanno dalle problematiche relative all’articolazione (che investono un piano organico e richiedono esami specifici – visita foniatrica – ed altrettanto specifici interventi rieducativi – logopedia), alle disfasie, anch’esse di interesse medico e neuropsicologico, al ritardo del linguaggio e alle patologie particolari della sfera linguistica come balbuzie e mutismo elettivo.
Il ritardo semplice del linguaggio: è caratterizzato dall’esistenza di alterazioni del linguaggio in un bambino che non presenta né insufficienza mentale, né sordità profonda, né organizzazione psicotica. L’elemento essenziale è rappresentato dal ritardo nella comparsa della prima frase e da un prolungato parlare “da bambino piccolo” tipico della fase del piccolo linguaggio (verbi all’infinito, errori di costruzione della frase). Solitamente la comprensione che, ricordiamo, nello sviluppo precede l’espressione verbale, è buona, qualora ci fossero invece alterazioni della comprensione, la prognosi deve essere più cauta. L’evoluzione può essere spontaneamente positiva, ma raramente un ritardo che persista oltre i 5 anni può sparire del tutto, per tale ragione è importante intervenire in tempo. Va tenuto conto che il periodo tra i 3 e i 5 anni rappresenta una soglia critica per il rischio che l’alterazione si fissi. E’ possibile, inoltre, che successivamente balbuzie e dislessia prendano il posto del ritardo. A livello eziologico, viene posto l’accento sulla carenza quantitativa e qualitativa di stimoli provenienti dall’ambiente familiare e culturale, sull’immaturità e l’equilibrio psicoaffettivo; ovviamente di grande importanza sono le relazioni con l’ambiente familiare. Si può intervenire con un approccio psicomotorio ed una terapia ortofonica, qualora i disordini affettivi siano di rilievo e le relazioni familiari (in particolare quelle madre-bambino) si organizzino con modalità patologiche, si deve intervenire anche sul piano psicoterapeutico.
La balbuzie: è un’alterazione del versante elocutorio e non del linguaggio in sé che compare tra i 3 e i 5 anni manifestandosi soprattutto nei maschi. Si associa spesso a contrazioni del viso, tic, disagio espresso in vari modi e può sopravvenire in seguito ad uno shock affettivo improvviso. E’ legata ad una componente ansiogena ed emotiva, difatti si accentua quando la relazione scatena un’emozione (ad es. con genitori, insegnanti, sconosciuti) mentre si attenua o sparisce quando le emozioni possono essere più facilmente controllate (come nel canto, nella ripetizione di un testo a memoria, in un soliloquio). Alcuni tratti di personalità si ritrovano di frequente: introversione e ansia, passività e sottomissione, aggressività e impulsività; spesso le madri sono ansiose e iperprotettive o distanti e poco affettive, spesso insoddisfatte. La balbuzie spesso si lega ad una difficoltà nella gestione della separazione dall’altro che suscita angoscia eccessiva anche perché fortemente connessa ad una componente di ambivalenza (abbandono e perdita, attacco e aggressività). Dal punto di vista terapeutico, quanto più il trattamento della balbuzie è precoce tanto più saranno rapidi i risultati. Generalmente la terapia va intrapresa intorno ai 5-7 anni e, accanto ad un trattamento specifico, un approccio psicoterapeutico può essere certamente utile, così come tecniche di rilassamento e psicodrammatiche.
Il mutismo indica un’assenza di linguaggio in un bambino che abbia già parlato prima e i cui disturbi non rientrino nel quadro dell’afasia. Si distingue in:mutismo totale acquisito: sopravviene in genere dopo un forte shock affettivo, è di durata variabile e spesso passeggero; ad esso succede un periodo di parola bisbigliata e, alle volte, una transitoria balbuziemutismo elettivo stabile: viene diagnosticato intorno ai 6-7 anni, ma può presentarsi prima. L’elettività si riferisce al luogo in cui si manifesta il mutismo, che può andare dall’ambiente familiare a quello scolastico o extrafamiliare. Può durare parecchi anni e si accompagna spesso ad inibizione motoria, talvolta ad opposizioni ed enuresi.Dal punto di vista psicoaffettivo, va tenuto conto della componente relazionale: il legame madre-bambino è, in questi casi, molto forte (con la forte ambivalenza che ad esso si accompagna) e il linguaggio può essere considerato una potenziale minaccia contro questo legame. Spesso un “segreto familiare”, qualcosa di non detto, tra i membri della famiglia viene sigillato col mutismo. Malgrado un adattamento di superficie, talvolta il mutismo può mascherare alterazioni di tipo psicotico, spesso si inserisce in quadri di tipo nevrotico. Sul piano terapeutico è essenziale un approccio psicoterapico che tenga conto anche di un lavoro sulla componente genitoriale.
Daniel Marcelli, raggruppa sotto la voce “alterazioni comportamentali” una serie di condotte sintomatiche che testimoniano la progressiva maturazione del bambino e che se si presentano in maniera isolata e intermittente non assumono un significato patologico. Al contrario, il loro ripetersi e la loro associazione può dar luogo ad un’organizzazione psicopatica.
Menzogna: quando il bambino verso i 3-4 anni scopre che è possibile non dire tutto, che è possibile dire ciò che non è o inventare una storia, siamo vicino ad una tappa importante: mentire infatti rappresenta la possibilità, per il bambino, di acquisire che il suo mondo interno, immaginario, resti solo suo. Ma la distinzione tra il vero e il falso non acquisterà pieno significato fino ai 6-7 anni, quando se mentire permetterà al bambino di cominciare a proteggersi, dire la verità s’integrerà sempre più con una condotta sociale in cui stima di sé e riconoscimento degli altri avranno maggior valore. Naturalmente nella valutazione di questa condotta hanno un peso la frequenza e funzione della menzogna. Ad esempio la menzogna utilitaristica (tesa a ricercare un beneficio concreto) va distinta da una menzogna compensatoria (che si articola sulla costruzione di un’immagine inaccessibile) e da un grado estremo di finzione che si accompagna alla fantasticheria mitomanica.
Furto: rappresenta la condotta delinquenziale più frequente nel bambino, che si osserva molto più spesso nei maschi che nelle femmine; tuttavia non si può certamente parlare di furto prima che il bambino abbia acquisito la nozione di proprietà e sia dunque consapevole della propria individualità come differente da quella altrui, della nozione di possesso e di alcune norme e codici morali che inducono il bambino stesso a riconoscere la propria condotta come furto (intorno cioè ai 6-7 anni quando hanno luogo i primi veri processi di socializzazione). Ha significato, naturalmente, considerare quale sia il comportamento del bambino in occasione del furto (senso di colpa, vergogna, ansia, spavalderia), quale sia il luogo e quale l’oggetto rubato (anche in termini di valore e di utilizzabilità): in relazione all’intero insieme di elementi il furto assume naturalmente diverse sfumature di significato. Per comprendere il senso psichico ed emotivo del furto dobbiamo richiamarci alle considerazioni di Winnicott in merito alle condotte antisociali, ovvero a quei comportamenti che esprimono nell’individuo la speranza e la pretesa di un possesso che in altri tempi gli è stato negato (qualcosa a cui aveva diritto e che con la sua azione rivendica) e che si legano alla relazione con la madre-ambiente primario. In casi estremi il furto può iscriversi in una condotta deviante, come inizio di una psicopatia.
Anzitutto ricordiamo che l’aggressività non implica soltanto una reazione di collera seguente ad una frustrazione. Essa è in parte innata e risponde alle pulsioni di morte (secondo la concettualizzazione freudiana e kleiniana); ma l’aggressività benevola è anche al servizio della vitalità e della spontaneità dell’individuo (secondo il pensiero di Winnicott) che solo con un’attività aggressiva può affacciarsi al mondo.
Eteroaggressività: le prime condotte direttamente aggressive intervengono alla fine del II anno di vita e nel III; prima di questa età il bambino può manifestare reazioni di rabbia con violenta agitazione (battere i piedi per terra, gridare) finché non ottiene quel che aspetta. Verso i 2-3 anni invece il bambino può adottare un comportamento collerico ed oppositivo (d’altra parte ciò va anche inscritto nella dimensione dell’autonomia che accompagna e segue l’acquisizione del controllo sfinterico) che si manifesta anche con condotte aggressive verso gli altri (graffiamento, morsi ecc.). Questi comportamenti tendono a sfumare intorno ai 4 anni, quando cioè il bambino comincia ad esprimere la propria rabbia anche e soprattutto verbalmente. Le sue fantasie aggressive sono spesso ricche e numerose, come testimoniano spesso i giochi, i sogni d’angoscia e le ansie persecutorie. L’aggressività che risponde ad un’intolleranza pervasiva e non selettiva alle frustrazioni, certamente normale e comprensibile verso i 2-3 anni, può invece assumere dimensioni eccessive e preoccupanti in fase di latenza e poi nella preadolescenza (il bambino in veste di “aguzzino familiare”) con la possibilità di pericolosi “passaggi all’atto”. Questo genere di situazione riferisce spesso di una condizione familiare caratterizzata da un’intesa genitoriale mediocre o artificiosa, dall’assenza di regole e limiti e dalla mancanza di autorevolezza nelle figure genitoriali.
Autoaggressività e mutilazioni: la condotta automutilatoria compare precocemente con graffi sul viso, mordicchiamento delle mani, colpi ritmici della testa che rappresentano condotte non eccezionali tra i 6-8 mesi e i 2 anni di età, in un’epoca in cui si può ritenere che il bambino non distingua ancora benissimo tra sé e il mondo esterno. Ma tali condotte lasciano poi gradualmente il passo alle condotte eteroaggressive. In generale le condotte automutilatorie possono esprimersi in risposta ad una frustrazione (in questo caso rispondono all’irrompere dell’impulsività, come ad es. nel lasciarsi cadere per terra, battere col corpo per terra, darsi ripetuti colpi); come segnale di richiamo e sollecitazione verso l’ambiente; come rivolgimento su di sé dopo un’interazione aggressiva; come comportamento autostimolante in un contesto di isolamento. Si possono ritrovare gravi condotte automutilatorie anche nelle situazioni di abbandono e deprivazione affettiva.
Inibizione grave dell’aggressività: alcuni bambini sono caratterizzati da un importante evitamento di qualsiasi condotta aggressiva che va al di là della semplice paura di subire colpi o punizioni. Un comportamento sottomesso, l’assenza di reazioni di rabbia, di protesta, di gelosia e rivalità nei confronti dei fratelli, possono invece indicare la presenza di intense fantasie di distruzione e, per reazione, una costante minaccia persecutoria, di ritorsione, verso di sé; una confusione tra realtà e fantasia che alimenta profonde angosce e che può far si che il bambino sperimenti la propria aggressività come realmente distruttiva e la sua integrità realmente a rischio. certamente in alcuni casi questa dimensione può scaturire nell’espressione di una erotizzazione masochistica della sofferenza.
Contenuto e modalità del gioco acquistano naturalmente grande significato, soprattutto quando ci si trovi in presenza di variazioni considerevoli del gioco. Nelle condotte autistiche ad es. il bambino sceglie spesso oggetti duri e anche di uso comune, ripete infinite volte rigidi schemi di azione ripiegati su di sé (stereotipie); in questi casi la ripetizione delle condotte mira alla riproduzione senza cambiamenti in un universo pietrificato. Tuttavia, l’intensità di questi comportamenti e la chiusura in essi implicata costituiscono un importante elemento di discrimine all’interno di un quadro più complessivo. Non di rado capita, infatti, che la ripetitività nei giochi esprima un tentativo nevrotico di acquietamento e di controllo su situazioni di ansia che non per questo deve far propendere per una configurazione patologica più seria.
“Un bambino che non gioca è un bambino inquietante qualsiasi età abbia” (Marcelli, 1982). Se nel lattante l’assenza di interazioni e di scambi mimici può esprimere sofferenza (depressiva e abbandonica) e inquietudine (ipervigilanza ansiosa nel bambino vittima di abusi), nel bambino più grande è l’assenza di giochi di ruolo e simbolici che deve attirare l’attenzione del genitore e dell’insegnate prima ancora che l’attenzione del clinico. Marcelli individua diverse tipologie di bambini che non giocano o che giocano poco:
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