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Adele Nunziante Cesaro » 19.Il processo di idealizzazione e la malattia d'idealità. Il dolore della perdita: la depressione femminile.


Il processo d’idealizzazione

L’idealizzazione è un processo cerniera tra narcisismo primario e relazione oggettuale, tra principio di piacere e di realtà, fantasia inconscia e mondo esterno.

Prima di tutto bisogna definire allora tre termini:

  • fantasia: scenario immaginario in cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio inconscio
  • realtà: è quella esterna, oggettiva, differenziata dalla dimensione interna
  • adattamento: tra i due precedenti, permette gradualmente di distinguere tra vissuti soggettivi e percezioni esterne, e di agire efficacemente sull’ambiente

Secondo Chasseguet Smirgel (L’Ideale dell’Io, 1975), al tempo dell’indifferenziazione primaria, l’infante è per se stesso il proprio ideale e non ha desideri, insoddisfazioni, perdite. Questa esperienza illusoria rimane iscritta nel Sé come traccia di una felicità perfetta ma perduta necessariamente perché “È proprio a partire dalla frustrazione che è nato l’Io [...]. È dall’attesa di un soddisfacimento che è nata la vita fantasmatica, l’elaborazione del desiderio, il linguaggio e così via.”

Le caratteristiche dell’idealizzazione

La nostalgia di ritrovare la fusione di un tempo è un motore significativo e la frantumazione dell’onnipotenza narcisistica è il momento primordiale in cui l’infante la proietta sull’oggetto sottoforma di Ideale dell’Io. I modelli successivi sono ideali sostitutivi presi a prestito temporaneamente mentre il raggiungimento della meta (la somiglianza con l’ideale e quindi la sua soppressione) non è mai veramente e definitivamente soddisfacente (fattore di progresso). La ricerca di quella perfezione si ritrova anche nell’amore e nella sublimazione.

L’idealizzazione, quale processo mirante ad azzerare lo spazio tra sé e l’oggetto, si colloca come processo del’Io e consente la sopravvivenza nella realtà di una fantasia: quella di ripristinare il tempo in cui le esperienze mentali erano proto-fantasie o fantasie nel corpo (Gaddini, Fantasie difensive precoci e processo psicoanalitico, 1981).

Se l’idealizzazione viene usata non a negare coattivamente la separazione, ma a ri-esperire la fusione con l’oggetto, collocandosi in uno spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente, costituisce una risorsa creativa e un potente mezzo di legame.

In continuità con il concetto winnicottiano di illusione, che fonda l’area transizionale tra l’oggetto soggettivo e oggettivo, l’idealizzazione è, quindi, un processo psichico vitale.

L’idealizzazione difensiva

Esiste anche un modo di usare l’idealizzazione molto vicino ad un meccanismo rigidamente difensivo, espressione di una distorsione del narcisismo normale, a servizio di un Sé non bene integrato.

Rycroft (Idealizzazione, illusione e delusione catastrofica, 1955) definisce come segue il meccanismo dell’idealizzazione difensiva: di fronte a una delusione, il ritiro dell’investimento libidico da oggetti reali è una negazione dei sentimenti di vuoto e disperazione, perciò elude la necessità di riconoscere l’ambivalenza della relazione. Il senso di vuoto, l’impossibilità di sperare di provare piacere, la separazione tra intelletto e immaginazione spostano l’investimento dalla realtà esterna a un’imago allucinatoria, a spese delle relazioni con il mondo e secondo meccanismi di introiezione e scissione.

Quando l’holding materna interrompe la continuità e introduce il tempo dell’attesa e del ritorno, la separazione non è perdita irrecuperabile, ma distacco acceso dal desiderio di ri-trovare l’oggetto.

Vi può essere, invece, un parziale fallimento delle cure ambientali: se la madre non è empatica e non risponde adeguatamente ai bisogni del/la bambino/a, se l’indistinzione primaria è stata interrotta precocemente o, al contrario prolungata eccessivamente, la separazione che pure sopraggiunge è un’esperienza traumatica e distruttiva.

Le conseguenze dell’idealizzazione difensiva

L’idealizzazione può essere talvolta l’unica difesa, ma annuncia un ritiro che nega la rabbia per la propria impotenza e non permette crescita: il tempo è fermo. Il soggetto non può verificare che l’oggetto è sopravvissuto alla sua distruttività, perché è venuto a mancare prima e in modo traumatico. Di conseguenza, il soggetto non accede all’uso dell’oggetto separato, cioè non elabora l’ambivalenza sempre presente negli investimenti reali. Illudendosi che Sé e l’altro non sono separati, i suoi oggetti sono solo soggettivi, cioè fasci di proiezioni.

Questi meccanismi possono funzionare fin tanto che l’oggetto collude magicamente con i bisogni soggettivi, ma nel momento in cui inserisce nella relazione il proprio modo di esistere, si crea uno scarto inevitabile che ricorda la separazione e l’alterità e costringe il soggetto a demonizzare l’oggetto-altro, proiettando su di lui i propri impulsi rancorosi per avere riacceso il ricordo della separazione traumatica e deludente. Svalutazione e indifferenza accompagnano il ritiro dell’investimento libidico dalla realtà. L’autoidealizzazione delle parti distruttive onnipotenti di Sé, innesta, infatti, una tendenza a scindere intelletto e immaginazione e genera una notevole indifferenza verso il mondo, anche se nascosta dal fatto che il soggetto continua a intrattenere relazioni sociali.

La madre morta. L’amore

La separazione è favorita da una madre che è in grado di trasmettere la vita e di metabolizzare le ansie.

In caso contrario, è una madre morta, un oggetto senza vita, distante e poco empatico, dunque un oggetto trauma che costringe l’infante a un narcisismo distruttivo: trovarsi oggetti protesici volti all’autarchia e al “fare da solo” e ad un tempo propensi ad attaccare l’oggetto deludente e traumatico (Mancia, Nello sguardo di Narciso, 1990) per negare i sentimenti di disperazione.

Il processo dell’idealizzazione in effetti è presente anche nell’innamoramento. Chasseguet Smirgel (1975) ricorda che nei primi momenti d’amore, indipendentemente dalla risposta dell’altro, il soggetto si trova in prossimità del suo ideale incarnato. La tanto attesa abolizione della separazione è vissuta nel registro del soddisfacimento allucinatorio del desiderio, tramite anticipazione. All’insegna dell’esaltazione e dell’espansione egotica, l’idealizzazione amorosa non ricerca semplicemente la sessualità, cioè si muove esaltando il narcisismo e il benessere originario senza integrazione delle acquisizioni psicosessuali evolutive. Incorporeo, questo tipo di amore come quello cantato dagli stilnovisti o vissuto dagli adolescenti, non viene sminuito dal fatto che non sia corrisposto.

L’idealizzazione e la condizione storica della donna

I meccanismi di idealizzazione storicamente sembrano aver avuto più motivo di alimentarsi nella vita femminile. Nel chiuso delle case, dedite a legami affettivi non scelti, le donne potevano assumere masochisticamente la realtà consegnata loro o compiacersi narcisisticamente del proprio ruolo, o ribellarsi attraverso modalità di scissione. Estraniarsi da una realtà frustrante, mediante un sogno, in una dimensione di tempo fermo, a favore di una scena fantasmatica che le veda oggetto e soggetto di amore e di desiderio, sembra la sola scelta praticabile per molte donne del passato e forse anche del presente. Caratteristiche ricorrenti del femminile sono:

  • il narcisismo, esperienza primaria di costituzione del Sé
  • l’idealizzazione come modalità difensiva
  • il masochismo come conseguenza dell’introiezione della collera provata e non espressa

Inoltre, la tendenza all’idealizzazione alligna nell’intreccio delle identificazioni primarie e secondarie della figlia con una madre amata come primo oggetto e odiata sia per il legame con il padre sia perché è di ostacolo all’individuazione. L’idealizzazione con il suo aspetto regressivo narcisistico, ricerca l’unità originaria mentre la tenerezza nega i livelli aggressivi orali e sadico-anali, ma anche quelli genitali. Non c’è godimento della sessualità ma solo masochismo e sottomissione.

Il dolore della perdita

Si parla di patologia depressiva (melanconia) solo nei casi di psicosi maniaco-depressiva, che non saranno oggetto della presente trattazione.

Generalmente per depressione si intende l’affetto che accompagna molte sindromi nevrotiche, tanto da essere spesso paragonata all’angoscia: ma mentre la prima si riferisce al passato, quest’ultima concernerebbe il futuro. Infatti l’angoscia sarebbe un segnale d’allarme di fronte ad un pericolo, mentre la persona depressa si sente impotente rispetto a un’immagine di sé ancora desiderata ma definitivamente perduta. Il senso della propria mancanza (narcisistica) vede in chiaroscuro la megalomania dell’altro. La depressione, infatti è per lo più messa in relazione con la perdita dell’oggetto, l’ambivalenza nei suoi confronti, il narcisismo e l’Ideale dell’Io.

Le caratteristiche dell’affetto depressivo ricordano da vicino la condizione base della maturazione umana: il sentimento di perdita nella situazione di impotenza dell’infante, esperienza di traumatismo originario che oscilla tra gli estremi del benessere e del panico, con tutte le modulazioni di dolore e speranza.

Le risposte al dolore

Secondo Joffe e Sandler (Note sul dolore, la depressione e l’individuazione, 1965), la malattia depressiva, caratterizzata da introiezioni e identificazioni patogene, è diversa dalla risposta/reazione depressiva, quale affetto base, come l’ansia.

Se la risposta sana al dolore (due sono le fonti di dolore primario: la nascita biologica e quella psicologica) sarebbe la lotta, nel caso dell’affetto depressivo, prevale la fuga: di fronte all’incapacità a ripristinare una situazione desiderata, il soggetto reagisce capitolando.

Se l’amore oggettuale, quale modalità indiretta di ripristinare il narcisismo primario, ha la sua controparte nel benessere che il Sé esperisce, è anche vero che qualsiasi relazione è caratterizzata dall’ambivalenza. Se l’aggressività non può esprimersi, repressa dal Super-Io, il senso di impotenza di fronte al dolore intenso può trovare la sua risposta nella depressione quale inibizione generalizzata delle pulsioni e delle funzioni dell’Io.

Un’altra soluzione è, invece, l’individuazione perché comporta una rielaborazione della perdita e l’abbandono di stati ideali a favore di nuovi ideali, più in armonia con l’Io e la realtà. L’individuazione è un processo che dura tutta la vita, in particolare nei momenti di crisi e può fallire per molti motivi, sfociando nel disadattamento e nella depressione.

Un contributo teorico alla depressione femminile

Per le donne, il percorso di acquisizione dell’identità femminile, la propria individuazione, presenta difficoltà particolari, che predispongono, in un certo senso, alla risposta depressiva.

Secondo S. Argentieri (L’equivoco della bisessualità in psicoanalisi, 1995), il neonato ama la madre ma questa non è differenziata né da lui né in sé stessa. Ella è tutto.
Nell’indifferenziazione primaria, la sua separazione viene percepita solo negli scarti che a tratti si creano tra le tensioni infantili e la risposta puntuale e immediata della madre. La minimizzazione del divario nell’adattamento vede la figura materna, quale madre-ambiente e non ancora madre-oggetto, impegnata come contenitore delle ansie del/la bambino/a grazie alla capacità di rêverie.

Nell’holding situation (Winnicott, Collected Papers, 1958), la madre si muove per produrre e confermare l’illusione della continuità corporea.
La successiva separazione sarà, quindi, percepita come perdita di una parte di Sé.

Un contributo teorico alla depressione femminile (parte II)

Le caratteristiche femminili della madre (l’odore della pelle, la morbidezza del seno, ma anche il suo modo di amare, le fantasie e i desideri) si iscrivono nella percezione corporea infantile a costituire il primo nucleo identitario. Questo stato costituisce quel benessere non pensato, il Sé ideale, conosciuto ontologicamente e rimpianto nostalgicamente con la separazione. La discrepanza tra Sé ideale e la realtà dello sviluppo successivo costituisce l’humus dell’affetto depressivo.

Il dolore inevitabile della crescita si rinnova nello sviluppo della donna attraverso l’elaborazione di esperienze multiple di perdita, marcate nel corpo: il menarca, il parto, la menopausa, ecc. Con la gravidanza, ad esempio, la donna ripete nel e con il corpo il totale senso psicosomatico di fusione. Il parto, allora, mobilita sentimenti di perdita incolmabili, come nelle depressioni post-partum. La depressione femminile, quindi, avrebbe non solo il carattere di paralisi, ma anche di rimando ad una situazione appagante.

L’uomo, invece, non potendo elaborare la perdita e esperire attraverso il corpo, utilizzerebbe la cultura e la creazione artistica quali aree transizionali. L’idealizzazione è l’altra faccia dell’affetto depressivo, che, proprio per questo, può essere motore di sviluppo e di elaborazione creativa.

La differenza tra uomo e donna: sensualità e sessualità

Nei rapporti d’amore, rivivono i processi identificatori e le relazioni oggettuali. Così, nelle donne c’è la ricerca di un’intimità profonda corporea e sensuale e la frequente lamentela nei confronti del partner per i suoi tentativi di fuga.

Il maschio teme difensivamente un’intimità pastosa che potrebbe minacciare la sua differenziazione. Di conseguenza, gli sembra essere meno marcata la distinzione tra sessualità (genitalità) e sensualità di conseguenza la risposta è sempre dello stesso tipo, quale integrazione delle componenti libidiche e aggressive.

La costruzione dell’identità femminile, invece, crea un ampio registro di sfumature amorose non sempre finalizzate alla genitalità, per cui se la donna si sente male amata, la delusione potrebbe comportare aggressività: rimproveri all’uomo come a se stessa, per non essere un oggetto capace di suscitare amore. Le componenti sensuali femminili persistono più a lungo così come l’attaccamento pre-edipico alla madre.

Allo stesso modo, nel volgersi verso ideali più adatti alla realtà, la donna potrebbe trovare inadeguati i modelli sociali ideali culturalmente determinati, ma in maniera maschilista. L’affetto depressivo può allora trasformarsi in depressione per una donna dilaniata da una conflittualità insostenibile tra volere e dovere/potere.

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