In ambito psicoanalitico, il problema della valutazione dello sviluppo si impone soprattutto quando, alla luce dell’esperienza osservativa (dapprima “accidentale” e poi sempre più “intenzionale”) del comportamento infantile, l’interesse teorico e clinico comincia a convergere sul bambino, sui suoi meccanismi psichici, sulle sue difficoltà e sulla sua possibile analizzabilità. In questo senso la concezione dell’infanzia, frutto della ricostruzione psicoanalitica, comincia a lasciare gradualmente il passo alle conoscenze che vanno costruendosi a partire dai dati dell’osservazione diretta. D’altra parte già nel 1905 Freud aveva esortato “allievi e amici a raccogliere osservazioni sulla vita sessuale dei bambini” (p. 482) altrimenti trascurata o negata, riconoscendo il valore che tali osservazioni assumevano come scoperta o conferma della sessualità infantile.
Il caso del piccolo Hans (1909), incarnando quasi una verità scientifica dell’esistenza della sessualità infantile, diventa l’emblema del nuovo interesse per l’osservazione del comportamento infantile e per il lavoro psicoanalitico con i bambini. La sua esperienza consente a Freud di trovare una forma di verifica alle teorie precedentemente esposte, di comprendere meglio quanto accade nella malattia nevrotica, interrogandosi sul significato delle fobie per il bambino come per l’adulto e, infine, di chiarire aspetti della vita psichica infantile che ispirino nuovi criteri educativi (Freud, 1909). Inoltre, per quanto Freud si dichiarasse insoddisfatto di questo insolito trattamento, assumendo prove della sua buona riuscita solo diversi anni dopo, con esso non soltanto sembrava possibile avvalorare quanto enunciato dalla massima che individua nel bambino il padre dell’uomo ma, soprattutto, ci si cominciava ad aprire al controverso campo dell’indagine e della cura psicoanalitiche nell’infanzia, portato avanti da Hermine Hug-Hellmuth e, dopo di lei, da Anna Freud e Melanie Klein. Un discorso che, come noto, confluì nelle Controversial Discussions degli anni ‘40.
Il sorgere di un interesse specifico per il lavoro con i bambini scaturì nell’acceso dibattito tra Anna Freud e Melanie Klein. Esponenti del primo approccio ponevano in dubbio l’analizzabilità dei bambini e, soprattutto, di quelli molto piccoli, riconoscendo la necessità di una modifica e di una adattabilità della tecnica psicoanalitica classica impiegata con gli adulti alle specificità del comportamento infantile. Una “fase di addestramento” all’analisi avrebbe consentito di rendere più analizzabili i bambini e di lavorare sulla possibilità che venisse ad instaurarsi un transfert positivo, sebbene, da questa prospettiva, ci si scontrasse con l’irrealizzabilità di un vero transfert nell’infanzia (inteso classicamente come riedizione dei rapporti con le figure genitoriali). Tale modello si inscriveva nei dettami psicoanalitici classici.
Esponenti del secondo approccio consideravano, invece, che fosse possibile analizzare i bambini sin dalla più tenera età, che la tecnica analitica dovesse realmente modularsi in base alle peculiarità infantili e che il gioco potesse rappresentare lo strumento atto allo scopo, al pari delle libere associazioni dell’adulto. Tenendo conto, inoltre, di una diversa prospettiva teorica che, com’è noto, anticipa la realizzazione del complesso edipico e la strutturazione di un Super Io -per quanto rudimentale ed arcaico- tra la fine del I anno ed il II di vita, il transfert (sia esso positivo o negativo) risultava possibile proprio in quanto riedizione e in quanto proiezione sulla figura dell’analista delle imago genitoriali introiettate (ricordiamo che, nella prospettiva kleiniana, il bambino vive relazioni oggettuali in realtà e in fantasia e che, nella stanza d’analisi, si rende possibile proiettare all’esterno parte del proprio mondo interno).
Per rispondere “alle domande dei genitori riguardanti i problemi evolutivi, è necessario tradurre le decisioni esterne in funzione delle loro implicazioni interne”. Così si esprimeva Anna Freud (1965) introducendo il concetto di linee evolutive e riflettendo riguardo alla possibilità di valutare la normalità e la patologia del bambino avendo in mente non soltanto il passaggio da uno stadio psicosessuale al successivo, ma anche le acquisizioni evolutive che rispondono alle funzioni dell’Io, dell’Es e del Super Io (nonché alle richieste educative provenienti dalla società). Un prototipo di linea evolutiva è rappresentato ad es. “dalla dipendenza all’autonomia affettiva e alle relazioni oggettuali adulte”, una transizione che segna il grado di maturità del bambino nell’affrontare alcuni compiti evolutivi (inserimento al nido ecc.) e che aiuta quindi l’adulto nel comprendere quali aspetti educativi possono essere introdotti ed accettati. Tale progressione evolutiva consente anche un inquadramento che sostiene il processo di valutazione dello sviluppo da parte del clinico; ma occorre precisare che la progressione nello sviluppo non segue una causalità diretta e lineare.
Le “disarmonie evolutive” esprimono la normalità di quelle condizioni in cui alcuni aspetti dello sviluppo procedono in avanti, mentre altri si arrestano o regrediscono. Anche la regressione, d’altra parte, rappresenta un principio dello sviluppo normale. Allora come e, soprattutto, quando intervenire su un individuo in via di sviluppo? Come valutare la patologia? Sappiamo che il concetto di “malattia” ha un valore pratico che risponde ad un fattore assolutamente quantitativo, non qualitativo. L’intervento del clinico si pone, dunque, là dove e quando lo sviluppo subisce un arresto di fronte ad un ostacolo che ne impedisce la progressione in avanti.
Il lungo tempo trascorso dai tempi delle Controversie e le recenti scoperte osservative che tendono a far luce sulle competenze del neonato di pochi giorni non escludono comunque il riferimento a prospettive che, per quanto datate, ancora guidano la valutazione diagnostica in età evolutiva. Se, nell’adulto, sono le difficoltà nella capacità di lavorare ed amare ad esprimere un disagio che è l’adulto stesso, il più delle volte, ad avvertire come tale e che motiva la sua domanda di intervento psicologico, nel bambino la situazione è diversa. Su quali aree deve confluire lo sguardo del clinico? Cosa definisce ciò che è normale e ciò che è patologico? Inoltre, il disagio che motiva la richiesta di intervento, spesso portata dai genitori, è espressione di una difficoltà del bambino o dell’entourage familiare? Ancora, tenendo conto della fluidità del processo evolutivo, del lavoro di quelle forze progressive che sospingono e sostengono i processi maturativi, pur se in maniera disarmonica, ma tenendo anche conto dell’agire della regressione, quando e come è più giusto intervenire?
Questi interrogativi pongono in campo questioni complesse ascrivibili alla complessità del fare diagnosi in età evolutiva.
Se i processi maturativi non sono da considerarsi come una progressione regolare ed armonica, va pur detto che è utile avere in mente una prospettiva lineare che consenta, con flessibilità, di confrontare e pensare cosa si discosta dal modo in cui lo sviluppo dovrebbe procedere, in una posizione teorica che, tuttavia, serve per discriminare normalità e patologia e per valutare, dunque, il livello di sviluppo. Detto ciò è chiaro che i criteri di normalità non possono limitarsi alla valutazione della condotta che determina la domanda d’esame e riassumersi in una semplice griglia di decodificazione. La disarmonia evolutiva, inoltre, costituisce un fattore patogeno solo quando si presenta in maniera persistente e ostacolante il processo evolutivo con uno squilibrio eccessivo che causa sofferenza psichica. Ma nell’infanzia si può parlare di psicopatologia individuale?
Ancor più che nell’individuo adulto, bisogna porsi nell’ottica di inquadrare il disturbo del bambino nella dinamica interazionale e, dunque, nella dimensione della relazione con i genitori e gli adulti di riferimento. Inoltre, tenendo conto che lo sviluppo, di per sé, è fonte di conflitto (ricordiamo a tal proposito la prospettiva di Erikson), grande attenzione va posta sulla “forza dell’Io” intesa come capacità di adattamento e di fronteggiamento, di aderenza alla realtà e di difesa (sappiamo, d’altronde, che anche nell’impiego dei meccanismi di difesa è possibile discriminare tra condizioni primitive e più mature).
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