Per comprendere l’importanza delle conseguenze in Italia del processo di integrazione europea è utile una breve riflessione su alcuni aspetti di un decennio tra i più difficili e tormentati nella nostra storia recente. Un decennio che nasceva dalla grande crisi di consolidati rapporti economico-politici e di profonde trasformazioni della cultura e dei rapporti sociali. Il “maggio parigino” della contestazione studentesca, la forza dirompente della “primavera di Praga”, l’”autunno caldo” del ‘69, l’interazione di tali avvenimenti nella diffusa speranza di una nuova società più libera e democratica aprivano un decennio di illusioni e di conquiste, ma anche di tragedie terribili.
L’inasprirsi della lotta politica con l’offensiva dei sindacati provocò una nuova scissione del partito socialista, ma soprattutto dimostrava la disgregazione delle forse politiche rispetto alle fortissime richieste di riforme. In particolare il partito di maggioranza relativa, la DC, fu attraversato da gravi contrasti e dal radicalizzarsi delle correnti interne. Tensioni che non risparmiavano l’altro grande partito italiano: il PCI. La sinistra interna assunse posizioni estremamente critiche rispetto al gruppo dirigente che ruotava intorno a Longo e Berlinguer.
Ciò dette vita ad una vera e propria scissione che ebbe come simbolo la creazione di un nuovo giornale “Il Manifesto”, col progetto del ritorno del PCI ad un’azione rivoluzionaria e ad una efficace tutela e rappresentanza della classe operaia. E’ evidente la collocazione antieuropea di simili posizioni politiche: secondo l’estrema sinistra le rivendicazioni sindacali e la battaglia riformista erano del tutto insufficienti e l’unico obiettivo da perseguire era la crisi del sistema capitalistico e parlamentare borghese.
La crisi dei partiti che avevano approvato la Costituzione era rafforzata dall’allontanamento dei sindacati dalle segreterie politiche e dalla ricerca di un’unità interna ai rappresentanti dei lavoratori e soprattutto tra le tre organizzazioni principali (CGIL, CISL, UIL). La lotta per le rivendicazioni economiche si intrecciava con le condizioni di vita, investendo un fronte amplissimo di rivendicazioni sociali e politico-istituzionali. Tutto questo dava vita ad un movimento di grande ampiezza e di mobilitazione che attraversò impetuoso tutto il Paese, con conseguenze che presto sfuggirono ad ogni tentativo di controllo.
Il 12 dicembre 1969 esplose a Piazza Fontana una bomba che provocò una strage e dette inizio ad una spirale di violenza e di tensioni in cui si affrontarono le forze contrapposte dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Chi ha vissuto gli scontri di quegli anni fa fatica a descrivere la miscela di entusiasmo, di confusione, di contrapposizione che attraversava la società ed assediava specialmente i partiti politici, rendendoli incapaci di rappresentare i sentimenti contrapposti e sanare un clima assai vicino a quello della guerra civile. Attentati, manifestazioni, scioperi, occupazioni attraversarono le grandi città ed i più piccoli comuni italiani sorretti ed alimentati da un dibattito ideologico anche profondo, che, partendo dalle università, investì l’intero apparato istituzionale. I primi anni Settanta furono drammatici per la storia della Repubblica italiana: il terrorismo faceva le sue vittime, mentre l’estrema destra incendiava il Sud con la rivolta di Reggio Calabria ed il livello dello scontro politico era tenuto altissimo dalla polemica assai aspra sulla guerra americana del Vietnam ed in generale sulle tradizionali alleanze (NATO).
A tale clima corrispondeva l’incapacità del governo: il primo ministro Emilio Colombo non fu nemmeno in grado di far approvare il famoso decreto urgente che tendeva a fronteggiare l’emergenza economica. Da più parti si chiedeva una riforma costituzionale, specialmente da chi subiva il fascino del profondo cambiamento maturato in Francia con l’instaurazione della Quinta Repubblica e dalla Presidenza di de Gaulle. La posizione di stallo tra DC e PCI fu evidente con l’elezione del Presidente della Repubblica nel 1971 dopo il settennato Saragat che portò al compromesso di votare Giovanni Leone, eletto con i voti determinanti della forze più conservatrici.
Era la risposta debole alle spinte innovatrici che venivano da amplissimi strati della società italiana, come apparve evidente nello scontro assai aspro sul tema del divorzio.
La battaglia del referendum fu estremamente importante e spaccò al loro interno le forze politiche: si giunse così nel 1971 al primo scioglimento anticipato del Parlamento repubblicano. Le elezioni tuttavia evidenziarono un dato importante non previsto: la DC ed i suoi partiti di centro-sinistra conservarono un consistente consenso e la maggioranza in Parlamento.
Erano gli anni della crisi della Comunità Europea e del prevalere dell’influenza gollista, che davano un ulteriore colpo non solo alle aspirazioni del federalismo in Europa, ma anche agli stessi benefici effetti dell’apertura dei mercati stabilita dai Trattati di Roma. La risposta del governo Andreotti alla crisi, fu la dilatazione della spesa pubblica, della crescente inflazione e del deprezzamento della lira nei confronti delle altre monete europee. L’Italia si trovava così di fatto ai margini della Comunità e della sua politica tendente alla stabilizzazione monetaria.
In realtà l’aumento dei prezzi e la progressiva stagnazione dell’economia colpiva soprattutto le fasce meno protette della società italiana e le regioni meridionali. Il destino del governo Andreotti era segnato; nasceva il IV governo Rumor di centrosinistra che, tra l’altro, aveva come programma un ravvicinamento dell’Italia alle politiche comunitarie. Dopo che il segretario del PCI, in seguito al colpo di stato in Cile, abbandonò le prospettive di un governo della sinistra, nella politica italiana piombò il risultato del referendum sul divorzio, che fu di diciannove milioni a favore della legge e di tredici milioni di contrari.
Il voto referendario, in contrasto con le ricorrenti crisi parlamentari rivelava un Paese assai più aperto e progressista di quel che si voleva credere, una società laica ed europea. Il clima di incertezza, di frustrazione non si allentò con il risultato del referendum, alimentato dalla tensione indotta dal terrorismo di sinistra (Brigate Rosse) e di destra. Il governo Rumor nonostante la presenza dei socialisti si rivelava sempre meno capace di eliminare i veleni e recuperare un’accettabile pace sociale. Il 10 giugno 1974 il leader democristiano si presentava dimissionario, mentre riprendeva vigore l’ostilità dei sindacati. Respinte le dimissioni gli equilibri di governo erano tuttavia sempre più precari: gli attentati terroristici si susseguivano e rendevano incerto ogni intervento volto a fronteggiare la crisi economica. Alla fine di giugno il ministro dell’interno Taviani faceva al Senato una descrizione allarmante sia del terrorismo rosso sia di quello nero”.
Quasi contemporaneamente alla fine del 1974 il leader socialista Francesco De Martino e il segretario del PCI Enrico Berlinguer denunciavano le carenze della gestione democristiana e lasciavano intravedere come soluzione quella del compromesso del centro con il Partito Comunista.
Tesi rafforzata da quel che avveniva in Europa con la rivoluzione socialista in Portogallo e la fine della dittatura fascista in Grecia.
Tutti gli indicatori economici segnavano un andamento fortemente recessivo e il Natale del 1974 verrà ricordato come uno dei più tristi del nostro Paese. Il governo passato nelle mani di Aldo Moro non poteva che riconoscere la debolezze del sistema di fronte alla doppia crisi: economica e dell’ordine pubblico. Ma esso segnava soprattutto il ritardo della classe dirigente rispetto al cambiamento della società italiana, come apparve evidente anche dalle profonde lacerazioni prodotte dalla legislazione sull’aborto.
Di tali cambiamenti il segretario del PCI Berlinguer sembrò il più attento interprete e il presidente Moro il più pronto a coglierne le implicazioni politiche. Le elezioni regionali del 1975 confermarono tale prospettiva con un clamoroso successo del Partito Comunista che quasi pareggiava con la DC e proponeva esplicitamente di assumersi la responsabilità delle indispensabili riforme.
Le elezioni politiche del 1976 (20 giugno) confermarono quelle amministrative dell’anno precedente.
Il PCI cresceva e tendeva a rappresentare anche i ceti medi progressisti, ma la DC non perdeva il suo ruolo di partito di maggioranza. Nasceva così il III governo Andreotti fondato sui voti DC ma soprattutto sull’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale.
Ci fu una certa ripresa dell’economia e l’appartenenza alla Comunità si rivelò oltremodo utile anche per un cospicuo prestito ottenuto dall’Italia per sanare il proprio deficit. Erano intanto sempre più strette le trattative per formare una maggioranza che includesse esplicitamente il PCI. E tali spinte si rafforzarono nel 1977, anno che Andreotti ricorda come un “anno senza crisi”.
Agli inizi del 1978 si verificò quello che senza dubbio fu il più grave avvenimento della recente storia italiana: il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.
Fu una ferita mai veramente rimarginata nonostante gli spazi per superare la crisi posti in essere dai due maggiori partiti. Il 15 giugno 1978 il Presidente Leone era costretto alle dimissioni per lo scandalo Lockeed; prese il suo posto l’ottantenne Sandro Pertini. Si andò subito dopo alle elezioni politiche e contemporaneamente alla prima elezione diretta del Parlamento europeo. Il PCI uscì sconfitto dalle elezioni e dalle sue scelte di governo. La lunga stagione post sessantottesca si esauriva, ripiegava mentre si ammainavano le bandiere del movimentismo, della contestazione al capitalismo ed alle sue istituzioni italiane ed europee.
1. Governo e politica: dallo stato all'Europa
2. Le origini, nel dopoguerra, tra ricostruzione ed utopia
3. La CECA e l'opera di Schuman
4. L'integrazione attraverso il mercato
6. Dopo i trattati di Roma: De Gaulle, Bad Godesberg
7. Le conquiste economiche ed i progressi istituzionali
9. L'Italia in Europa negli anni Settanta
10. Dall'euro-pessimismo al rilancio della Comunità. Gli anni Ottanta
11. L'Italia e l'Atto Unico Europeo
12. Il Trattato sull'UE: verso gli accordi di Maastricht
13. Il Trattato sull'Unione Europea
14. Dall'Unione Monetaria all'ulteriore allargamento della Comunità