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Giuseppe Di Costanzo » 10.La seconda inattuale: i cinque casi per cui l'eccesso di storia è dannoso per la vita


Gli effetti della saturazione di storia

Dopo aver analizzato i tre tipi di storia (monumentale, antiquaria e critica), la loro utilità e il loro danno, Nietzsche, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, elabora una seconda tipologia, i cinque possibili casi in cui l’eccesso di storia diventa dannoso per la vita: «In cinque riguardi mi sembra che la saturazione di storia di un’epoca sia ostile e pericolosa per la vita: da un tale eccesso viene prodotto quel contrasto tra esterno ed interno (…), e da esso la personalità viene indebolita; per questo eccesso un’epoca cade nella presunzione di possedere la virtù più rara, la giustizia, in grado più alto di ogni altra epoca; da questo eccesso gli istinti del popolo vengono turbati, e al singolo non meno che alla totalità viene impedito di maturare; da questo eccesso viene istillata la credenza sempre dannosa nella vecchiaia dell’umanità, la credenza di essere frutti tardivi ed epigoni; per questo eccesso un’epoca cade nel pericoloso stato d’animo dell’ironia su se stessa, e da esso in quello ancora più pericoloso del cinismo» (N. p. 39).

I 5 casi in cui l’eccesso di storia è dannoso alla vita

I cinque casi a cui si riferisce il filosofo tedesco sono dunque i seguenti:

  1. Il contrasto tra interno ed esterno.
  2. La presunzione di possedere la virtù più rara, la giustizia.
  3. La credenza di essere frutti tardivi ed epigoni.
  4. L’ironia.
  5. Il cinismo.
I 5 casi in cui l’eccesso di storia è dannoso alla vita

I 5 casi in cui l'eccesso di storia è dannoso alla vita


Contrasto tra interno ed esterno

L’eccesso di storia diventa ostile alla vita quando, per l’intervento di “qualcuno” interessato a bloccare la creatività del vivente, si genera un contrasto tra l’interiorità e l’esteriorità, ossia quando si sviluppa quello «strano contrasto di un interno a cui non corrisponde nessun esterno, e di un esterno a cui non corrisponde nessun interno» (N. p. 32). Tale contrasto nasce dall’idea, mistificante, della superiorità dello “spirito” sul “corpo”, dunque da un’accumulazione eccessiva di informazioni all’interno dell’individuo, che non è più capace di utilizzarle nella vita concreta (nell’esteriorità appunto): «Noi moderni infatti non caviamo niente da noi stessi; solo riempiendoci e stipandoci di epoche, costumi, arti, filosofie, religioni e conoscenze estranee, diventiamo qualcosa di degno di considerazione, ossia enciclopedie ambulanti (…). Ma nelle enciclopedie ogni valore si trova solo in ciò che vi sta dentro (…); e quindi tutta la cultura moderna è essenzialmente interna: esternamente il rilegatore vi ha stampato sopra qualcosa come “Manuale di cultura interna per barbari esterni”. Anzi questo contrasto tra dentro e fuori rende l’esterno ancor più barbarico di quel che sarebbe se un popolo crescesse solo da se stesso secondo i suoi duri bisogni. Giacché qual mezzo resta ancora alla natura per dominare ciò che si stipa troppo abbondantemente? Solo il mezzo di riceverlo con la maggior facilità possibile, per subito eliminarlo ed espellerlo di nuovo. Ne nasce una abitudine a non prendere più sul serio le cose reali, ne nasce la “personalità debole“» (N. p. 34).

Il concetto di “debolezza”

In Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche si scaglia spesso contro la “debolezza” e la “personalità indebolita”. Tuttavia è importante ribadire che per il filosofo il concetto di “debolezza” non si riferisce a una qualsiasi carenza fisica o materiale, ma alla mancanza di creatività, ossia di quell’atteggiamento per il quale l’essere umano, quando agisce, mira a riconoscersi completamente nelle azioni che sta compiendo.

Debolezza come “im-potenza”, quando il vivente è de-potenziato, dove la potenza (Macht) va intesa non come forza (Kraft) ma come possibilità, energia, capacità e intenzione di attuare una potenza, dare forma a una materia, vale a dire agire in modo felice in quanto creativo, riconoscendosi nel contenuto e nel risultato delle proprie azioni.

La presunzione di possedere la giustizia

L’eccesso di storia diventa dannoso alla vita quando i viventi si sentono possessori di una giustizia oggettiva. Questo atteggiamento si manifesta quando si utilizza la percezione del presente come metro di valutazione del passato. In realtà ogni epoca sviluppa specificità che possono essere comprese solo contestualizzando un determinato periodo, guardandolo ovviamente con gli occhi del presente: «questi ingenui storici chiamano “oggettività” il commisurare le opinioni e le azioni del passato alle opinioni correnti del momento: in queste ultime essi trovano il canone di tutte le verità; il loro lavoro è quello di adattare il passato alla trivialità attuale. Per contro essi dicono “soggettiva” ogni storiografia che non prenda come canoniche quelle opinioni popolari» (N. p. 51). Del resto Nietzsche attacca il nesso oggettività-giustizia poiché nella sua prospettiva ogni azione, ogni pensiero è sempre l’espressione di una soggettività: «Oggettività e giustizia non hanno niente a che fare tra loro. (…) Ogni uomo ha contemporaneamente la sua separata necessità, sicché milioni di tendenze corrono parallelamente le une accanto alle altre in linee curve e diritte, si incrociano, si favoriscono, si ostacolano, tendono in avanti o all’indietro, assumendo in tal modo l’una per l’altra il carattere del caso e rendendo così impossibile, escluse le influenze degli avvenimenti naturali, dimostrare una efficace e universale necessità di ciò che accade» (N. pp. 51-52). È questo uno dei punti in cui è più evidente la vicinanza di Nietzsche alle posizioni dello storicismo critico (Historismus), per cui la Seconda inattuale può essere considerata «un capitolo dello storicismo» (F. Tessitore, Introduzione allo storicismo, 1991, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 162-180).

La credenza di essere frutti tardivi ed epigoni

Il terzo danno dell’eccesso di storia è la credenza di essere frutti tardivi ed epigoni. Qui l’intenzione mistificante rischia di spingere i viventi a credersi storicamente vecchi in quanto frutti tardivi di una tradizione millenaria: «Ma alla vecchiaia si addice ormai un’occupazione da vecchi, cioè il guardare indietro, fare i conti, cercare conforto nel passato» (N. p. 61). È l’esaltazione del memento mori (ricordati che devi morire) al quale Nietzsche contrappone il memento vivere (ricordati che devi vivere). Fino all’ultimo attimo di vita la vita resta tale.
L’intenzione mistificante, alla quale Nietzsche si contrappone, è evidente perché anche il pensiero di essere epigoni «se pensato con grandezza, può garantire tanto all’individuo quanto a un popolo grandi risultati e un desiderio del futuro ricco di speranza: in tal caso cioè concepiamo noi stessi come eredi e discendenti di forze plastiche e sorprendenti, e vediamo in ciò il nostro onore, il nostro sprone» (N. p. 70).

La critica ad Hegel e alla sua filosofia

L’analisi del terzo danno consente a Nietzsche, in pagine decisive (cfr. N. pp. 70-74), di sferrare uno degli attacchi più radicali che la filosofia storicistico-critica abbia rivolto alla concezioni idealistiche. Ne citiamo qui soltanto l’inizio: «Ma se noi immaginassimo questi epigoni antiquari barattare improvvisamente quella rassegnazione ironico-dolorosa con l’impudenza; se li immaginassimo annunziare con voce stridula: la stirpe è al suo vertice, giacché solo ora essa ha con sé il sapere ed è divenuto palese a se stessa – allora avremmo uno spettacolo in cui si spiegherebbe, come in una similitudine, l’enigmatico significato per la cultura tedesca di una certa filosofia, molto famosa. Credo che in questo secolo non ci sia stata nessuna deviazione o svolta pericolosa della cultura tedesca, che non sia diventata più pericolosa ancora per l’enorme influenza, fino a questo momento ancora dilagante, di questa filosofia, ossia della filosofia hegeliana». Paralizzante è la credenza di essere epigoni ma distruttivo è il ritenere il frutto tardivo il senso, lo scopo e il culmine della storia, «il fatto cioè che la sua sapiente miseria venga equiparata ad un compimento della storia del mondo» (N. pp. 70-71).

La critica ad Hegel e alla sua filosofia (segue)

Immediatamente dopo la lunga, articolata critica all’idealismo Nietzsche ribadisce che la storia (Geschichte) non obbedisce a una legge interna o a una morale, gli eventi accadono per connessioni causali specifiche, in conseguenza di scontri, conflitti e incontri, senza seguire uno schema o un’idea di progressivo miglioramento: infatti possono verificarsi, e si verificano, tragiche fasi di decadenza e di orrore. Sono i viventi che producono storia (Geschichte), assumendosi la responsabilità delle proprie azioni. Dunque non esiste una necessità interna alla storia, né tutto quello che accade “doveva” accadere: «È cosa per esempio che offende la morale il fatto che un Raffaello sia dovuto morire a trentasei anni: un tale essere non sarebbe dovuto morire. Se ora volete venire in aiuto come apologeti del fatto, direte: egli aveva espresso tutto quel che aveva in sé, egli, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe potuto creare il bello sempre e solo come un bello ripetuto, non come un bello nuovo, e cose simili. Così siete gli avvocati del diavolo, precisamente in quanto fate del risultato, del fatto il vostro idolo: mentre il fatto è sempre stupido e in tutti i tempi è apparso più simile a un vitello che a un Dio. Inoltre come apologeti della storia, il vostro suggeritore è l’ignoranza: infatti solo perché non sapete cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo l’apprendere che essa fu e che non sarà più» (N. p. 73).

L’ironia e il cinismo

L’eccesso di storia, in questo caso soprattutto della storia critica, è dannoso per la vita quando l’intenzione mistificante si serva dell’ironia per bloccare l’energia creativa. L’ironia può spingersi fino al cinismo e può avere buon gioco perché qualunque azione creativa è certamente imperfetta, dunque cinicamente criticabile. È più facile criticare che agire, e qui si innesta la straordinaria critica a Eduard von Hartmman (cfr. N. pp. 76-88, dove la capacità visionaria di Nietzsche sembra cogliere la nostra contemporaneità). Il cinismo degli im-potenti sviluppa necessariamente una forma di giustificazionismo del passato e di una pericolosa e sterile esaltazione del presente: «Si giustifica il corso della storia, anzi di tutto lo sviluppo del mondo, esclusivamente per la comodità dell’uomo moderno, secondo il canone cinico: proprio così doveva accadere, come va proprio ora; così e non diversamente doveva divenire l’uomo, come gli uomini sono ora, e nessuno deve ribellarsi a questo “deve”» (N. p. 75). «Hartmman chiama l’età a cui oggi l’umanità si avvicina l’”età virile” (…), lo stato felice, in cui ci sarà ormai soltanto “solida mediocrità” e l’arte sarà ciò che “di sera è la farsa per l’agente di borsa berlinese”, in cui “i genii non saranno più un bisogno del tempo (…) perché il tempo è progredito, oltre lo stadio a cui si addicevano i genii, a uno più importante”, a quello stadio di sviluppo sociale cioè, in cui ogni lavoratore, “con un orario di lavoro che gli lascia ozio sufficiente per la sua formazione intellettuale, conduce una comoda esistenza”. Furbacchione tra tutti i furbacchioni, tu esprimi l’aspirazione dell’umanità di oggi: ma tu sai del pari quale spettro si troverà alla fine di questa età virile dell’umanità, come risultato di quella formazione intellettuale alla solida mediocrità – la nausea» (N. pp. 78-79).

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