Nella lezione precedente ci siamo soffermati sulle alcune tipologie di interazione.
Abbiamo visto come il corpo umano può essere inteso come il primo strumento di comunicazione e di interazione verso l’esterno. Tra l’individuo e i suoi simili, all’interno di un particolare ambiente.
Arti e sensi si pongono così come i principali strumenti di espressione e ricezione di informazione.
Nell’analizzare i dispositivi tecnici abbiamo mostrato come essi si pongano quali estensioni del corpo umano, consentendo all’individuo di compiere azioni che, altrimenti, sarebbero impossibili, difficili, laboriose o pericolose. Gli strumenti di lavoro (martelli, trapani, pinze..) così come quelli di locomozione (biciclette, automobili, treni…) e di comunicazione (radio, tv, cinema…) “estendono” le capacità percettive e operative del corpo umano. Tra questi strumenti tecnici ve ne sono di particolari, recenti, che consentono di operare su altri oggetti che non godono di concretezza fisica ma sono costituiti da bit, stringhe numeriche. Sono i cosiddetti oggetti-digitali con i quali l’utente può interagire attraverso un computer, ovvero un sistema informatico. Le azioni digitali sono, così, mediate da un dispositivo che traduce gli atomi in bit, trasformando gli oggetti culturali in dati informatici.
Tastiere, mouse e stampanti sono periferiche, ovvero strumenti tecnici che ci consentono di immettere delle informazioni nel computer, manipolarle indirettamente ed ottenere un risultato da imprimere su carta. Ma l’interazione con il computer avviene principalmente attraverso un’altra periferica di output, ovvero lo schermo. Tutti i computer attuali sono dotati di un display, uno schermo sul quale viene mostrata l’area di lavoro, le icone/applicazioni, i testi, le immagini e gli altri elementi digitali con i quali l’utente può interagire. Lo schermo, nell’era del Web – contraddistinta dall’accesso a qualsiasi informazione indipendentemente dallo spazio geografico – può essere interpretato come una “finestra sul mondo” o, volendo estendere una riflessione di McLuhan (1964), sul “villaggio globale”. Tutti i dispositivi con i quali interagiamo oggi offrono particolari tipi di schermo. E, come vedremo in questa lezione, per “schermo” non si intende solo quello del computer o della televisione.
Lo schermo classico
Con la nascita della pittura ma, ancora prima già con le incisioni che l’uomo primitivo effettuava sulle pareti delle caverne, l’individuo ha provato a catturare un frammento della realtà circostante. Il fine era quello di mantenere “vivo” il ricordo di un particolare evento (una scena di caccia, ad esempio) nel tempo.
La roccia era, per certi versi, l’estensione della propria mente. La scena ritratta rappresentava un frammento di quanto era stato visto o vissuto in precedenza. La pietra assumeva così le fattezze di uno spazio-altro, virtuale (in opposizione a quello reale).
Allo stesso modo, i dipinti del Rinascimento, offrivano una superficie diversa sulla quale imprimere e conservare lo spazio reale.
Esempio di dipinto: La presa della Bastiglia (1789; Fonte: Wikimedia)
Secondo Manovich (2001) queste modalità di rappresentazione sono etichettabili come “schermi”; in particolare, schermi “classici” o “statici”.
Essi, infatti, rappresentano una scena che è passata nel tempo, in quanto non condivide lo spazio di realizzazione e di fruizione con quello di esecuzione (ovvero l’evento tende a finire prima rispetto all’elaborazione pittorica dell’artista; così come lo spettatore vedrà quella riproduzione quando la controparte reale è già passata). Inoltre, vivono una relazione ambivalente con lo spazio.
Nel caso delle incisioni primitive oppure dei mosaici, l’opera realizzata è obbligata in un particolare luogo e lo spettatore (così come l’artista prima) deve essere compresente ad essa per vederla. Nel caso del dipinto su tela – così come anche la fotografia –, invece, l’opera può essere spostata di luogo in luogo e lo spettatore può vederla indipendentemente dal posto in cui è stata realizzata. Va da sé, comunque, che opera (mobile o meno) e spettatore dovranno essere sempre compresenti in uno stesso luogo.
Questo tipo di schermi viene così definito “statico”, proprio a sottolineare – da un lato – tale compresenza di creatore e spettatore e – dall’altro – la fissità dell’immagine impressa sulla superficie.
Alla staticità dell’immagine pittorica o fotografica, l’evoluzione tecnica affianca la dinamicità offerta dal movimento della “camera da presa”. Secondo le riflessioni di Bolter e Grusin (1999) potremmo dire che il cinema ri-media la fotografia.
Il cinema, secondo l’analisi di Manovich (2001), manterrà le qualità comunicative dello schermo statico aggiungendo però la dimensione temporale: con il cinema, infatti, è possibile vedere un immagine in movimento, che cambia nel tempo. L’illusione che il dipinto offriva solo in potenza, ovvero fornire allo spettatore la sensazione di essere in uno spazio-altro, viene portata «pienamente a galla». Lo spettatore può immergersi e immedesimarsi nelle immagini che vengono proiettate.
Inoltre, se nel dipinto l’attenzione dello spettatore poteva essere distolta da ciò che era oltre la cornice (ovvero l’ambiente nel quale l’opera era posta), nel buio della sala cinematografica il campo visivo dell’individuo viene completamente assorbito dallo schermo.
Lo spazio rappresentativo dello schermo e quello reale dell’individuo si intersecano, divenendo un tutt’uno. Questa sensazione si estende anche all’uso della televisione anche se la visione di quest’ultima può essere integrato con altre attività e situazioni (familiari che parlano, luci accese, conversazioni etc.).