Comporre vuol dire mettere insieme.
In architettura, come in musica, comporre è ordinare elementi differenti. Come per la musica, per l’architettura, l’arte del comporre è l’arte di saper “costruire”: costruire la forma è l’obiettivo dell’attività compositiva. Tutti i procedimenti e le tecniche che vengono adottati durante la composizione assumono valore e funzione ‘estetica’, se sono in grado di ordinare gli elementi perché il ‘tutto’ abbia una forma e un senso. In termini filosofici (e propriamente secondo la fenomenologia di Husserl), possiamo attribuire alla composizione il più generale significato di ‘processo di ricerca del senso’, o di ricerca del ‘contenuto di senso’.
La composizione dovrà essere, altresì, attività consapevole, cosciente di sé e del complesso dei ‘materiali’ che manipola. In realtà, come sanno i filosofi, la coscienza è sempre conoscenza-di-qualcosa, è sempre intenzionale. La coscienza conosce l’oggetto (il contenuto di senso) attraverso il suo atto.
J.S. Bach, Sonata per violino No. 1 in Sol minore (BWV 1001). Fonte: wikipedia
Vi sono svariati generi di atti di coscienza: la coscienza può vedere — e questa è la coscienza sensibile — ma la coscienza può anche ‘pensare’, immaginare, provare emozioni e in tutti questi atti vi è sempre ‘intenzionalità’. La coscienza non è chiusa dentro se stessa: la coscienza è sempre aperta verso un contenuto di senso. La coscienza ‘funziona’ in modo centrifugo, attribuisce senso. Questa è l’intenzionalità. Vale a dire: l’intenzionalità è la coscienza che attribuisce senso.
Organizzazione e armonizzazione, nel processo compositivo, sono assai legate ai significati connessi alla concinnitas definita da Leon Battista Alberti.
Il metodo conferisce ‘coerenza logica’ (una relativa ‘razionalità’) al complesso di operazioni di ‘montaggio’ dei vari elementi o ‘materiali’ (culturali, tecnologici, etc.) e conduce alla definizione di schemi tipologici e operativi comunque necessari affinché un particolare spunto inventivo possa tradursi in opera d’arte compiuta.
Leon Battista Alberti, Tempio malatestiano a Rimini, 1450. Fonte: wikipedia
I metodi della composizione derivano da una serie di presupposti differenti per natura e per intenzionalità, l’organizzazione del processo compositivo fa capo a ipotesi, premesse e requisiti, che concorrono —attraverso operazioni ordinatrici— ad un esito finale. I presupposti rispondono ad esigenze funzionali, distributive, pratiche; e/o riguardano la ‘intellegibilità’ formale dell’opera (assialità, centralità, serialità, simmetria, impostazione frontale o diagonale, ripetizione, ritmo, etc.), ed ancora, costituiscono la premessa teorica, in quanto base culturalmente ampia alla metodologia del progettare (simbolica, filosofica, scientifica, etc.).
In realtà ciascuno di questi approcci sottende una ‘ideologia dell’architettura’ derivante da una particolare visione del mondo (Weltanschaung).
Come si può comprendere, il significato del termine non è univocamente determinato.
Alla fine del XVIII sec., nella fase più acuta e tumultuosa della rivoluzione industriale, l’idea di composizione segna l’inizio di una crisi degli aspetti unitari e organici del costruire architettonico.
Questa crisi si manifesta come duplicità di assunti e di carattere del fenomeno architettonico: si apre una divaricazione tra il prevalente carattere estetico della ‘norma’ compositiva, da un lato, e il carattere pratico della costruzione come presunta sostanza del fare architettonico.
Contrapporre o separare i due termini è stata, a lungo, questione accademica.
Da una parte, una linea di pensiero (e ’scuole’ o ‘tendenze’) che tendono a fondare la composizione su una generale idea di architettura che si consolida in una vera e propria teoria intesa come organizzazione generale, sistematica e definitiva della conoscenza. Si tratta, evidentemente, di una posizione erede della tradizione trattatistica classica, che affonda le proprie radici nel corpus storico e culturale complessivo della disciplina architettonica.
Dall’altro versante, e soprattutto come partito di una generale crisi della civiltà occidentale conseguente agli sconvolgimenti indotti dalla rivoluzione industriale, si assume la ‘progettazione’ (come termine che indica un ‘processo di produzione’ della forma architettonica) come lavoro intellettuale che articola (in vista della sua attuazione) un ‘programma’ che va perseguito secondo un metodo, ‘indifferente’ rispetto ad una (eventuale) base teorica che lo fonda. Secondo questa concezione (in larga parte propria delle correnti architettoniche del Moderno) viene, in qualche misura, ma sempre consapevolmente, perseguito l’asservimento (o per meglio dire la ’sussunzione’) delle regole da fare architettonico ai metodi e ai processi della produzione industriale.
Si teorizza così, e si cristallizza, quella ‘duplicità’ genetica della natura del fenomeno architettonico, attribuendo un prevalente carattere ‘estetico’ alla norma compositiva, e riconoscendo il carattere ‘pratico’ della costruzione come presunta ’sostanza’ del fare architettonico.
Per quanto mi riguarda, ritengo di condividere la posizione di Quaroni che assume la stessa ‘progettazione’ come parte della composizione architettonica e non viceversa, e perciò dovremmo parlare addirittura di un ‘progetto di composizione architettonica’, laddove nel ‘progettare’ è importante la dimensione della scelta, del metodo e della tecnica che consentono un ‘pensare per fare’ come operazione né solo deduttiva, né solo induttiva, ma piuttosto abduttiva (Umberto Eco): cioè congetturale e produttrice del nuovo.
In questo senso l’attività compositiva in architettura (come in qualsiasi altra arte/mestiere) è un’attività culturalmente eleborata secondo procedimenti di sperimentazione, formulazione e trasmissione di ‘tecniche’ proprie (specifiche) ed ‘appropriate’.
In questa accezione (composizione come ‘mettere insieme cose diverse per farne una sola’) possiamo parlare della composizione come procedimento positivo e razionale che, per tutta l’esperienza complessa e tormentata del Moderno, ha teso a rendere effettuale un’idea di architettura come ’sostanza di cose sperate’ (Edoardo Persico).
Per Le Corbusier, la composizione è disciplina: ordinamento e anche organizzazione gerarchica dei materiali (nell’accezione ampia che diamo a questo termine), mentre, secondo Adolf Loos, la stessa operazione compositiva, sviluppandosi attraverso continue valutazioni secondo criteri di giudizio sufficientemente rigorosi, produce ‘conoscenza’ e può, quindi, persino configurarsi come ricerca di verità, quando tende ad individuare il nucleo di autenticità dell’opera, che, per Loos, ne garantisce bellezza e adeguatezza ad un costruire ‘con civiltà’.
L’esplicitazione linguistica della funzione ‘costruttiva’ della Composizione in ordine alla forma e quindi del ’senso’ del discorso architettonico, presente in ogni corrente della esperienza estetica moderna (almeno da Cézanne in poi, e passando per Mondrian, Mies e per tutto il Razionalismo), ha svolto (come mostra ad es. W. Benjamin quando introduce il concetto di ‘montaggio’ come superamento del razionalismo ‘oggettivo’ della cinepresa) un ruolo di radicale spoliazione dell’opera dal suo tradizionale carattere ‘auratico’ (magico, cultuale), nel tentativo di liberarla da ogni residuo ’sacrale’.
Le Corbusier, copertina de Le Modulor, 1950. Fonte: wikipedia
Le condizioni-occasioni contestuali (geografia e storia) connotano il farsi dell’opera come ‘avventura’, anche come ‘avventura progettuale: questo stesso farsi diventa, esso stesso, il racconto. La vicenda storica di molti capolavori dell’architettura (e di ogni opera che intenda perseguire un senso) contiene tale valenza narrativa. Tale valore —che l’opera compiuta offre alla interpretazione del proprio senso— esiste sin dall’origine del progetto, come narrazione di un percorso complesso e per molti veri ‘avventuroso’, come le ’storie’ materiali e culturali che esso contiene. Ogni spazio ‘costruito’, come ogni prefigurazione ‘ordinata’ secondo le specifiche procedure delle ‘regole dell’arte’, raggiunge chiarezza di senso se è in grado di raccontare il processo della propria genesi, e se è capace di rinviare a quei significati con cui ha dialogato nel suo generarsi, cioé a quei ‘pezzi di mondo’ che l’hanno resa possibile.
É Vittorio Gregotti ad aprire — seguito da altri numerosi autori —un importante numero monografico della rivista Estetica (n.28, 1988), che affronta il tema del rapporto fra architettura e narrazione. In particolare, nel lungo articolo di apertura, egli tenta di rintracciare le ragioni e la legittimità della ricerca di una ‘narratività’ del progetto da parte degli architetti contemporanei, che oggi sembra impegnarli più insistentemente e più diffusamente di ieri.
Per sua propria natura e per la particolare cripticità delle sue regole del ‘fare’ —secondo Gregotti— l’architettura sembra essere pratica artistica “non descrittiva“, non soggetta ad alcuna mimesi, se non attraverso un “tradimento letterario“. Questa carenza di comunicatività —egli si chiede— deriva forse dal fatto che “le regole della costruzione del fatto architettonico prevalgono su quelle della comunicazione?” Se così fosse, ci troveremmo di fronte al consolidarsi di una pratica architettonica come “grande artigianato“, come mestiere ben fatto: ma così non è.
Tuttavia a riprova di una relativa comunicatività del fatto architettonico, la critica si esercita sul ‘cosa dice’ (cosa racconta) l’architettura intorno alla tecnica, alla funzione, all’estetica, al sociale e così via.
In realtà non è tanto l’architettura in sé ad apparire più o meno comunicativa, quanto piuttosto, a venire meno è la capacità di leggere ciò che viene definito come lo ’specifico’ architettonico, che può essere individuato nel suo essere un insieme di materiali organizzati ad uno scopo. Tanto più che noi tutti, oggi come non mai, partecipiamo alla produzione di una ridondanza comunicativa estremamente invadente, per il fatto stesso che l’architettura ‘ingombra’ notevolmente il nostro panorama ambientale, e in forme del tutto inevitabili.
James Stirling, Staatsgalerie, Stoccarda, 1984. Fonte: wikipedia
Mi sembra pertinente, a questo punto, notare che, proprio per ritrovare un filo di comunicabilità dei modi nuovi della formazione dei linguaggi l’Avanguardia ha enfatizzato la trasferibilità del rigore formale dagli esercizi linguistici del ‘visivo’ nel mondo materiale delle cose dell’architettura, operando una sorta di riduzione che trascura spesso gli aspetti costruttivo-funzionali.
Ora sappiamo che si trattava di una superflua forzatura dell’Avanguardia, perché sia l’esercizio linguistico che quello ‘narrativo’ sono già materiali propri per la costruzione dell’architettura. Un’architettura, autenticamente significativa, quasi mai dovrà ricorrere al ‘tradimento letterario’ per raccontare se stessa, dei propri modi di farsi e di esistere nella storia (nel tempo) e nella geografia (nello spazio dei luoghi). Appare perciò fittizia la stessa distinzione tra una spazialità immaginaria della letteratura ed una spazialità concreta dell’architettura: dal momento che, prima ancora di divenire concreto, anche lo spazio architettonico è immaginario, essendo l’immaginazione una condizione-operazione necessaria per la produzione di un progetto di spazio. In questo senso, dunque, la narrazione è materiale assolutamente concreto per l’architettura —secondo Gregotti —”come lo sono i mattoni e le esigenze funzionali“.
Infine è interessante sottolineare, analogie e differenze con pratiche creative come la letteratura e la musica: poiché, mentre le regole formali quali sviluppo lineare, ripetizione ed eccezione, gerarchia fra le parti, sequenze sonore o fonetiche, dialettica tra costruzione della norma e costruzione della eccezione, sono questioni operative comuni agli architetti come ai letterati e ai musicisti, in architettura, tuttavia, acquista rilievo e specificità, tutta disciplinare, lo stesso rapporto fra soggetto della narrazione e contenuto disciplinare. Ed è per rispondere a questa necessità specifica dell’operare architettonico che la narrazione — come ipotizza Gregotti — è “un procedere dentro” per mezzo di un soggetto verso un contenuto. Narrare, in questo senso, ha la funzione di tra-durre il soggetto verso uno dei suoi possibili significati, che sarà determinato soltanto attraverso l’operazione progettuale che, in quanto racconto, diviene interpretativa. In tal senso, il tema stesso (come soggetto definito e costruito da un preciso scopo-programma) può assumere valore primario nel procedimento narrativo, quando questo diventa narrazione come sequenza storica dei modi d’uso pratico e simbolico di un’architettura: se è pur vero che il valore di una architettura risiede anche nella ‘capacità di promuovere una serie infinita di cotenuti-scopo, narrazioni possibili e verificabili’.
1. Di che cosa parliamo quando parliamo di Architettura
2. Il Tempo
3. Storia
4. Alcuni principi dell'architettura moderna
6. Composizione
8. Luogo
11. Linguaggi del progetto contemporaneo
12. Sviluppo del tema progettuale: Analisi, descrizione, interpretazione
13. Sviluppo del tema progettuale: principio insediativo
14. Formulazione dell'ipotesi progettuale
15. Sviluppo del tema progettuale: l'uso del riferimento (I parte)
16. Sviluppo del tema progettuale: l'uso del riferimento (II parte)
17. Sviluppo del tema progettuale: elaborazione del progetto generale
18. Sviluppo del tema progettuale: l'unità abitativa
19. Il tema del recupero urbano in aree complesse: esemplificazioni progettuali – parte prima
20. Il tema del recupero urbano in aree complesse: esemplificazioni progettuali – parte seconda
Letture
F. Purini, Comporre l' Architettura, Laterza, Roma-Bari, 2000
A. Mariniello, Varius, multiplex, multiformis: morfologie della modificazione, in ArQ n.1/dic. 1989
Sguardi
Rodcenco, Composizione astratta, 1918, New York, MoMA
W. Tatlin, Modello per il monumento alla Terza Internazionale, 1919-20 (ricostruzione), Stoccolma, Moderna Museet
P. Mondrian, Composizione in rosso, giallo, blu, 1927, Amsterdam, Stedelijk Museum
Calder, Le ninfee rosse, 1956, New York, The Solomon Guggenheim Museum
A. Calder, Teodolapio, 1962, Spoleto, spazio pubblico
Munari, Struttura continua, 1961-67, Milano, coll. Galleria Danese