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Alfonso Morone » 4.Gli anni Sessanta: Biba, Mary Quant e la Swinging London


Gli anni Sessanta e la rivoluzione giovanile

Volendo a questo punto approfondire il decennio in cui si realizza una vera e propria rivoluzione sociale attraverso l’abbigliamento, che avrà una profonda ripercussione sulla struttura fisica e sociale del negozio, bisogna innanzitutto partire dalla ovvia affermazione degli anni Sessantacome un periodo di imponenti rivolgimenti politici, sociali e culturali.

I rapporti tra le razze, generazioni, classi e sessi, si modificano in modo irreversibile, in direzione di una maggiore apertura, tolleranza e democrazia. Le arti, la letteratura e la musica subirono profonde innovazioni, adottando nuovi linguaggi espressivi che, rifacendosi ai miti della società dei consumi, li rielaborano dalle basi. Nel corso degli anni Sessanta, i giovani diventarono il gruppo sociale egemone sia a livello culturale sia, più strettamente per ciò che ci riguarda, nell’ambito dei comportamenti di consumo.

La generazione giovanile, dotata per la prima volta nella storia moderna di una sufficiente autonomia di reddito, divenne la protagonista del cambiamento sociale, ponendosi come modello di riferimento ideale della cultura del cambiamento. L’ideale umano degli anni Sessanta, cessò di essere il tranquillo borghese di mezza età, per assumere le sembianze di un giovane, allegro, spensierato e alla continua ricerca di forme d’evasione. I protagonisti della rivoluzione sociale e culturale che da Londra si diffonderà nel resto del continente europeo furono proprio i giovani, che con la loro forza dirompente e la loro carica innovativa riuscirono ad imprimere alla società una svolta di enorme importanza.

Gli anni Sessanta e la rivoluzione giovanile (segue)

I nuovi valori generazionali (abbandono delle convenzioni, libertà, dinamismo) fecero rapidamente apparire obsoleta, rigida e iperstatica la tradizionale eleganza di classe dell’alta moda. L’abito, da segno di distinzione sociale delle classi agiate, si trasformò rapidamente in un simbolo di appartenenza e in uno strumento per soddisfare il bisogno di evasione ludica.

La cultura progettuale ed artistica degli anni Sessanta persegue la aspirazione di un unico sistema espressivo che coinvolge moda, design, architettura, ricerca artistica. Lo stesso oggetto industriale si sottrae all’equazione funzionalista del bello che si identifica con l’utile, per assumere quei caratteri effimeri e transitori che erano stati, sino ad allora, appannaggio esclusivo della moda.

1968, Pierre Cardin, collezione “cosmonautica”

1968, Pierre Cardin, collezione "cosmonautica"

1966, Poltrona “Sacco”, produzione Zanotta

1966, Poltrona "Sacco", produzione Zanotta


Gli anni Sessanta e la rivoluzione giovanile (segue)

Le capitali giovanili di questi anni sono Londra e San Francisco. Soprattutto Londra vede trasformare profondamente l’identità dei suoi quartieri più commerciali, in funzione delle nuove esigenze aggregative giovanili.
La Londra degli anni ‘60 si affermò come la città di riferimento del cambiamento, il luogo privilegiato della nuova espressività giovanile, in cui si espresse il senso di una nuova energia esplosiva. La vitalità della città divenne leggendaria e segnò un’epoca di grandi cambiamenti, che definirono, in maniera indelebile, la connotazione urbana: qui nacquero tutti i nuovi movimenti giovanili.

Carnaby Street, diventò la via più alla moda, che richiamava da tutta l’Inghilterra gruppi di ragazzi appartenenti ai Mods, la prima band giovanile formatasi a partire dagli anni ‘50, e che qui erano sicuri di trovare l’abbigliamento adatto a loro e sempre al passo con i tempi.

Londra in una rappresentazione degli anni Sessanta

Londra in una rappresentazione degli anni Sessanta


Gli anni Sessanta e la rivoluzione giovanile (segue)

La scelta dell’abbigliamento divenne espressione di una particolare scelta di vita. Nacquero così mode che solo riduttivamente potremmo circoscrivere all’abbigliamento, ma che in realtà identificano gruppi giovanili, espressivi di gruppi sociali radicalmente diversi: beatnik, teddy boys, mods, hippy, punk. Ogni gruppo giovanile aveva le sue strade, che in primo luogo, si caratterizzavano per la presenza di negozi di abbigliamento in cui i giovani si incontravano, non solo per svolgere una attività di acquisto ma, soprattutto, per incontrarsi tra loro.

Mods 1964-1965

Mods 1964-1965


La boutique

Dal nostro punto di vsta, la grande protagonista in assoluta è la boutique, punto vendita di antica tradizione che scopre una nuova identità e un’importante vocazione. Grazie alla boutique, i giovani scoprirono che, l’abbigliamento poteva essere un elemento di identificazione generazionale ed una forma di contestazione sociale. In origine, negli anni venti, il termine francese boutique, non aveva il significato che ha progressivamente acquisito nel corso del tempo, indicava semplicemente una bottega od un laboratorio. In seguito ha cominciato ad essere utilizzato per designare un particolare negozio in cui si acquistavano abiti caratterizzati da un forte e preciso contenuto di moda. I sarti parigini, usavano questo termine per indicare un piccolo spazio di vendita in cui gli acquirenti potevano trovare capi già confezionati, a differenza degli ateliers veri e propri in cui si creavano modelli su misura.

Vetrina di una Boutique parigina degli anni Venti

Vetrina di una Boutique parigina degli anni Venti


La boutique (segue)

Dalla Francia questa parola arrivò in Inghilterra nel corso degli anni Sessanta, acquisendo un significato più specifico e nuovo. Essa divenne sinonimo di un luogo creato apposta per i ragazzi, colorato, con la musica ad alto volume e indumenti disposti in modo che i giovani clienti potessero prenderli e provarli tranquillamente, senza dover chiedere passare per il tramite del personale di vendita.

Le commesse, appartenevano alla stessa fascia d’età delle consumatrici, favorendo così un processo di identificazione reciproca. La relazione tra il cliente e l’addetto alle vendite subì in questi anni una profonda trasformazione dovuta sia all’eliminazione del bancone, su cui solitamente venivano enfaticamente mostrati i capi, che alla sostituzione dello staff tradizionale di vendita, con uno più giovane ed informale. I commessi non indossavano più un abbigliamento riconoscibile, solitamente una sorta di divisa nera che permetteva loro di distinguersi facilmente, creando così un gioco di ruolo in cui era difficile capire chi fosse il commesso e chi il cliente.

Vetrina della Boutique Male W.1., Carnaby Street Londra, 1967

Vetrina della Boutique Male W.1., Carnaby Street Londra, 1967


La boutique (segue)

Prima di questa rivoluzione non erano presenti negozi dedicati esclusivamente al mondo degli adolescenti, e comunque l’atmosfera che si respirava negli ambienti commerciali era prevalentemente grigia e noiosa. Lo shopping non veniva ancora considerato come un potenziale momento di svago, ma si avvicinava più che altro all’idea di uno dei tanti rituali sociali, obbligatori e per niente interessanti. Si richiedeva, durante il momento dell’acquisto, il rispetto di precise regole di bon ton, che si accompagnava a un particolare abbigliamento adatto all’occasione ed un certo contegno. Per i ragazzi l’andare a fare acquisti con la madre si prefigurava così come una specie di impegno sociale, guidato dalla necessità di dover cambiare l’uniforme scolastica o il cappotto invernale, e non dal desiderio di acquistare qualcosa di nuovo e piacevole per sé.

Esposizione di abbigliamento maschile all’interno di una boutique sartoriale

Esposizione di abbigliamento maschile all'interno di una boutique sartoriale


La boutique (segue)

Negli anni Sessanta, in particolare a Londra, le boutique diventarono quindi il luogo privilegiato di incontro e aggregazione dei giovani. Due sono le pietre miliari di questa storia: Mary Quant, che apre il suo Bazar nel 1958, e Biba di Barbara Hulanicki. Quest’ultima rappresenta la boutique più famosa in assoluto degli anni ‘60.
Lo shopping, da questi anni, non fu più solo il momento funzionalistico indirizzato all’acquisto di abiti o accessori, ma si trasformò in un fondamentale strumento di riconoscimento identitario. L’acquisto e la frequentazione di specifici luoghi di vendita, divenne una tramite per formalizzare l’appartenenza a piccole ed esclusive nicchie sociali.

Carnaby Street, Londra anni Sessanta

Carnaby Street, Londra anni Sessanta


La boutique Bazaar di Mary Quant

Nel pieno della rinascita della moda femminile, dopo la dolorosa parentesi della guerra, una giovane modella e stilista decise di aprire nel 1955 a Londra, in Kings Road, la boutique Bazaar. All’epoca questa strada era costellata da numerosi piccoli negozi che vendevano più che altro generi alimentari e provviste alla comunità locale.

Bazaar era riconoscibile per il marchio, una margherita, il suo stile molto semplice e colorato contrastava nettamente con quello allora in voga. Esso si rivolgeva a un’ideale femminile esile e molto giovane, che fu perfettamente incarnato dalla magrissima modella Twiggy. Mary Quant lanciò minigonne, calze lavorate e stivali alti fin sopra il ginocchio, pantaloni scampanati e cinture, top lavorati all’uncinetto e lucidi impermeabili. I suoi prezzi accessibili, uniti allo stile rivoluzionario, la fecero conoscere a un pubblico vastissimo. Da Bazar i consumatori erano certi di trovare di tutto, maglioni, cravatte, cappelli, gioielli e di passare all’interno del negozio piacevolmente quanto tempo volevano, in un ambiente allegro ed informale, senza essere disturbati da commessi invadenti.

La modella Twiggy con una minigonna di Mary Quant

La modella Twiggy con una minigonna di Mary Quant


La boutique Bazaar di Mary Quant (segue)

Tuttavia è con l’apertura della seconda boutique che Mary Quant riuscì a conquistare definitivamente il mercato ed a far parlare di sé le riviste di moda di tutto il mondo. Il nuovo Bazaar venne aperto nel 1961 in King’s Road e sancì il definivitivo successo di questa nuova forma di negozio.
Parallelamente alla vera rivoluzione rappresentata dal suo approccio liberatorio all’abbigliamento, altrettanto importante è stato il modo con cui Mary Quant ha rivoluzionato il modo di concepire lo spazio di vendita ed in particolare le vetrine. Esse dovevano, principalmente, dare forma a un nuovo stile di vita rappresentato dagli abiti ed accessori e quindi dovevano essere sorprendenti e colorate in modo da attirare l’attenzione del passante con la esemplificazione di scene di vita reale. L’allestimento divenne così un elemento fondamentale che doveva essere predisposto in modo tale da colpire lo sguardo; chi camminava in King’s Road doveva rimanere stupito dalla vetrina e come spinto da una misteriosa attrazione vi si doveva fermare davanti incuriosito. Allo stesso tempo la vetrina doveva invitare i passanti a varcare la porta d’ingresso, invogliandoli a scoprire il negozio vero e proprio, indipendentemente dalle loro precedenti intenzioni.

Allestimento di una delle vetrine di Bazaar di King’s Road, 1965

Allestimento di una delle vetrine di Bazaar di King's Road, 1965


La boutique Bazaar di Mary Quant

Diventano di conseguenza importanti anche i manichini, che rappresentano un ulteriore elemento di fascinazione. Mary Quant si rese conto che quelli usati nei negozi tradizionali erano troppo lontani dalle caratteristiche fisiche reali ed attuali degli individui. Diventarono allora protagonisti dei suoi spazi espositivi manichini più simili nell’aspetto alle persone comuni, dagli zigomi alti, visi angolari e tagli di capelli più vicini alla moda del momento. Abile imprenditrice oltre che stilista, il successo ottenuto la portò a sfidare il mercato americano creando, infine, una linea di abbigliamento per la grande serie ed ampliando la sua offerta anche alla cosmetica ed alla cura del corpo.

Allestimento tematico di una delle vetrine di Bazaar di King’s Road, 1965

Allestimento tematico di una delle vetrine di Bazaar di King's Road, 1965


BIBA

Nei primi anni Sessanta le boutique pur essendo aperte ad un pubblico essenzialmente giovanile, esprimevano ancora una politica di prezzo alta e non accessibile a tutti.
Bisognerà attendere l’apertura, nel 1964, del primo negozio di tendenza Biba, perché il processo di effettiva e completa democratizzazione della moda si compia.
Insegna di una boutique londinese e bandiera di un modo di vestire di tendenza legato all’avanguardia inglese degli anni Sessanta, il nome Biba deriva da quello della sorella della stilista Barbara Hulanicki. E proprio la Hulanicki insieme al marito Stephen Fitz-Simon avviò, nel ‘63, una vendita per corrispondenza di gonne e pezzi d’abbigliamento, lanciando la Biba Postal’s Boutique, attraverso annunci sul quotidiano Daily Express. La stilista ebbe per prima l’intuizione di tematizzare la sua immagine aziendale, traendo una prima ispirazione dall’Art Nouveau e dall’Art Deco: il logo della azienda, con il nome “Biba” in oro su uno sfondo nero, divenne presto un marchio leggendario, immediatamente riconoscibile a livello internazionale.

Inserzione pubblicitaria della Biba’s Postal Boutique, 1963

Inserzione pubblicitaria della Biba's Postal Boutique, 1963


BIBA (segue)

È ancora con il nome di Biba che, nel ‘64, in piena Swinging London, la Hulanicki, dopo l’esperienza della vendita per corrispondenza, aprì il suo primo negozio nel quartiere di Kensington, passerella di un nuovo stile pensato per i giovani dell’epoca. Nella boutique le ragazze potevano finalmente trovare tutto quello che era necessario per essere alla moda. Prima dell’apertura di Biba, infatti, per le teenagers londinesi mancavano luoghi in cui potevano dedicarsi all’acquisto di abiti che permettessero di adottare uno stile distintivo e generazionale. Molti di questi nuovi consumatori appartenevano al movimento giovanile dei Mods e Barbara Hulanicki si rese conto che il modo migliore per interpretare i loro desideri era quello di osservare dall’interno questo nuovo fenomeno, formalizzandolo in uno stile di abbigliamento. Per la prima volta la moda non coincise con l’ambiente elitario dell’Haute Couture. La strada ed i giovani diventarono la fonte di ispirazione per la stilista che creò così un progetto generazionale indirizzato esclusivamente a giovanissimi. Questo progetto complessivo portò ad un ampliamento dell’offerta merceologica. Alla fine degli anni ‘60 Biba, anticipando il fenomeno del total look, firmava già collezioni di moda, accessori, make-up e arredamenti.

Vetrina Biba, Abington Road, 1964

Vetrina Biba, Abington Road, 1964


BIBA (segue)

Ma la boutique Biba, oltre ad essere riuscita a dar voce a questo nuovo mercato giovanile, è stata in grado di legare il suo nome all’immagine di un luogo distintivo, accogliente ed unico nel suo genere. In esso vi confluivano elementi ed atmosfere di luoghi esotici, ma sempre con un tocco contemporaneo; si potevano individuare richiami orientali, aspetti vicini alla cultura mediterranea ed elementi caratteristici di ambienti della vecchia Europa. La Hulanicki aveva scelto appositamente un arredamento e un design per le sale interne che fossero in grado di suscitare un fascino particolare, il suo tentativo era infatti quello di ricreare l’atmosfera che lei aveva trovato da bambina negli allestimenti dei negozi e dei mercati palestinesi, in cui si mescolavano colori e profumi di ogni sorta. Tutto questo si rifletteva nell’ambiente che aveva qualcosa di misterioso e sensuale che veniva comunicato dalle tonalità blu dei muri e dall’utilizzo di lampade che diffondevano una luce tenue ma che riusciva a ricreare uno spazio dall’aspetto intimo e personale.

Particolare di una delle insegne che utilizzavano una elaborazione grafica del logotipo Biba

Particolare di una delle insegne che utilizzavano una elaborazione grafica del logotipo Biba


BIBA (segue)

Nel 1966 vista la grande popolarità ottenuta, Barbara Hulanicki decise di trasferirsi in locali più grandi, spostando Biba in Kensington Church Street. La decisione di traslocare coincise con il desiderio da parte della stilista di ampliare il potenziale pubblico di riferimento, rivolgendosi non più solo ad una platea di adolescenti, ma cercando di conquistare anche le nuove pop star e attrici. Nonostante il target ora fosse più ampio, la politica dei prezzi si mantenne uguale, restarono contenuti ed accessibili a tutti. La filosofia della stilista riteneva che lo status di un oggetto o di un capo non stava nel prezzo a cui veniva venduto, ma nella capacità che questo possedeva di rispecchiare la personalità di chi lo indossava, permettendogli di sentirsi perfettamente a proprio agio.

Negozio Biba a Kensington Church Street, 1966

Negozio Biba a Kensington Church Street, 1966


BIBA (segue)

Nei vari negozi Biba il concetto allestitivo rimase inalterato nel tempo
I vestiti erano direttamente accessibili al pubblico, appesi su grucce, appendiabiti o disposti su scaffali aperti. Con le loro tonalità calde ed allegre si armonizzavano perfettamente con l’ambiente che li circondava, la gamma di colori andava dal prugna, al marrone, dall’orchidea ai toni pastello.

Il personale circolava nel locale mimetizzandosi tra i visitatori, evitando di importunarli se non espressamente interpellato.

Interno del negozio Biba a Kensington Church Street, 1966

Interno del negozio Biba a Kensington Church Street, 1966


BIBA (segue)

Infine nel 1973 venne aperto l’ultimo spazio vendita Biba, in un grande magazzino in stile art déco. Era un negozio molto più grande rispetto ai precedenti, creato con l’obiettivo di offrire alla clientela l’esperienza di trovarsi completamente immersi nel mondo che Biba aveva cercato di costruire sin dai suoi inizi. L’atmosfera che avvolgeva gli ambienti era infatti caratterizzata da quel particolare mix di elementi orientali e art déco che erano diventati un fattore distintivo già della sua prima boutique nonché di tutto il suo stile. Con la differenza che il primo di questi tre negozi cercava di ricreare un ambiente tutto sommato intimo ed accogliente, vicino ad un salotto domestico, ora quello che si presentava agli occhi dei tanti visitatori poteva sembrare più che altro un lussuoso hotel.

Big Biba esterno, 1973

Big Biba esterno, 1973


BIG BIBA

Il mega store Big Biba si sviluppava su sei piani: al piano terra si potevano acquistare tutti gli accessori, da scarpe, cappelli, biancheria intima, trucchi e così via; il primo era quello destinato alla vendita di abiti; il secondo era interamente dedicato ai bambini; il terzo era rivolto al pubblico maschile; il quarto dava la possibilità di trovare tutto quello che serviva per arredare la propria casa; infine l’ultimo piano, chiamato “Rainbow Room” era quello più originale e decisamente in anticipo sui tempi. Qui c’era la possibilità di sedersi in assoluta tranquillità, di bere, di mangiare o stare in compagnia, ma l’elemento più originale era la presenza di un palcoscenico su quale si esibivano i gruppi più in voga del momento, sotto in infinito turbinio di luci colorate.
Quello che Barbara Hulanicki era arrivata a proporre era l’offerta di un completo lifestyle, che andava dagli abiti, ai mobili, al più piccolo accessorio.

Big Biba 1973, Rainbow Room sala spettacoli e ristorante con 500 posti a sedere

Big Biba 1973, Rainbow Room sala spettacoli e ristorante con 500 posti a sedere


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Progetto "Campus Virtuale" dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, realizzato con il cofinanziamento dell'Unione europea. Asse V - Società dell'informazione - Obiettivo Operativo 5.1 e-Government ed e-Inclusion

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