Che posto hanno intuizioni pure, in cui vige l’assenza di un oggetto effettuale dei sensi? E come conciliarle con lo strutturale e imprescindibile carattere recettivo dell’intuizione?
Un possibile modo per provare a rispondere a tali questioni è quello di ripercorrere la tematica dell’esposizione, termine con il quale Kant indica lo svolgimento del compito proprio alla sensibilità: dare un oggetto ad un concetto.
In un passo della Dottrina del Metodo, dopo aver sottolineato che la prima forma di questa esposizione è quella pura a priori, si legge che: “costruire un concetto significa: esporre a priori un’intuizione ad esso corrispondente”.
L’intuizione pura viene definita come intuizione in concreto – e dunque è ciò che concerne una singolarità – e, insieme, a priori – e dunque dotata di caratteri di universalità.
Caricatura di Hagermann (1801). Tratta da: kant.uni-mainz.de
L’intuizione nella sua forma pura ha sempre a che fare con un oggetto; oggetto che, dal canto suo, non essendo dato a posteriori, deve in qualche modo essere prodotto. Una produzione non spontanea ma sensibile, svolta attraverso e per mezzo della modificazione, un’azione produttiva viene dunque attribuita alla sensibilità nella sua forma pura.
Ma come è possibile asserire questo, senza far crollare quel pilastro dell’edificio critico che si basa sulla recettività della sensibilità, dunque sulla sua dipendenza dal darsi di una che di a posteriori, assolutamente non producibile dal nostro Gemüt?
L’intelletto, in qualità di facoltà della determinazione e dell’unità, si correla e si sintetizza con la sensibilità e la sua modificabilità, comportando una sorta di suo influsso su di essa, un riverbero della sua unificatrice attività determinante sulla capacità di accogliere il molteplice dato che definisce l’intuizione.
È attraverso quest’articolazione del Verstand sulla Sinnlichkeit che la sensibilità viene dotata di una sua attività, finendo con l’essere non solo recettiva ma anche, sempre insieme, attiva.
A partire da ciò, si può intendere quanto Kant afferma in una nota al § 26 dell’Analitica trascendentale, ovverosia che:
a) la forma pura a priori, lo spazio nella fattispecie, non è solo recettiva, sintetica del molteplice dato, attitudine ad essere modificati, ma è anche attiva;
b) c’è un’attività nell’intuizione grazie alla quale essa conferisce unità alla rappresentazione;
c) l’intuizione formale è l’effetto, ad un primo livello, dell’applicarsi dell’intelletto su un campo potenziale di rapporti, applicazione questa che permette la produzione di una rappresentazione pura, a cui, poi, l’intelletto può riapplicarsi per costruire ed esibire i suoi concetti.
L’intuizione è sì passiva, come è passivo il suo luogo trascendentale, la sensibilità, ma, grazie al suo sintetizzarsi con l’attività dell’intelletto, essa è al tempo stesso dotata di un’azione spontanea sua propria, non assimilabile a quella dell’intelletto.
Sciogliere questo snodo concernente la presenza di un’attività nella passività dell’intuire, non vuol dire affatto ritenere conclusa la riflessione sull’auto-affezione intesa come articolazione tra i poteri rappresentativi del soggetto: se ci limitassimo a questo infatti, correremmo il rischio di dare una sorta di priorità all’intelletto sulla sensibilità.
Se è vero che l’intelletto ha un influsso sulla sensibilità, a contrario e reciprocamente, la sensibilità produce un qualche effetto, e forse sarebbe meglio dire affetto, sull’intelletto.
Se la spontaneità del pensiero è legata alla modificazione che la sensibilità porta con sé, allora essa pur rimanendo attività determinante, sarà sempre attività che, operando in un orizzonte di sensibilità, non potrà mai prescindere da un determinabile.
Insomma, la non sovrapponibile differenza che intercorre tra bestimmen e affiziert (CrP, p. 147 e 149), fa sì che la spontaneità del pensiero si leghi, si sintetizzi ad un’affezione, smettendo definitivamente di essere pura spontaneità.
Ne deriva quindi che:
In virtù di queste definizioni di auto-affettività, di soggettività e di spirito si può avviare una revisione delle forme spazio-temporali e dei loro rapporti.
Da un lato, il senso interno, più che essere semplice condizione formale in cui noi poniamo le rappresentazioni esterne nell’animo, ricettacolo di materiale rappresentativo, è innanzitutto forma dell’essere affetti da sé in quanto altro e, in questo senso, luogo interno che implica trascendenza.
Dall’altro, lo spazio oltre ad essere luogo che accoglie e ordina il molteplice empirico, in quanto forma soggettiva dell’esteriorità, può essere letto come una sorta di ‘rappresentazione dell’oggetto come me stesso’ e implica perciò, dal canto suo, una completa immanenza.
Attraverso l’articolazione sintetica tra le irriducibili facoltà, la teoria dell’auto-affezione descritta nell’Estetica, individuando un rapporto d’alterità del sé nel sé, mettendo a fuoco la distanza che s’incrocia all’interno dell’io, esprime la strutturale novità che il trascendentalismo kantiano inaugura. Superando la vetusta distinzione metafisica tra soggetto e oggetto, qui si apre una zona di intenzionalità, un’originaria dinamica di polarizzazione, di prioritaria relazione, che fa sì da un lato che la coscienza, sentendo l’alterità attraverso l’innestarsi reciproco tra le due forme spazio-temporali, sia sempre coscienza aperta, coscienza di qualcosa che, d’altro lato non può mai essere inteso come l’altro assoluto, quanto piuttosto il polo oggettuale sempre interno alla relazione.
Disegno di H. Janssen (1983). Sul retro si legge: “Nihil est sine ratione cur potius sit, quam non sit. Lieber Helmut Schmidt, dies zum 23.12.83 und zur gefälligen Verfügung für Kurznachrichten an Freunde“. Tratta da: kant.uni-mainz.de
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