Il vertice di osservazione della psicoanalisi consente di mettere in luce quanto sia estremamente profondo l’intreccio tra area dei bisogni ed area dei desideri, nella misura in cui possono emergere coesistenze, raccordi ed antagonismi che riguardano più direttamente il bisogno di generare e il desiderio di bambino.
Il bisogno di generare sembra inscriversi in uno scenario psichico segnato dalla necessità di fornire una risposta a quel che si configura come un trauma della separazione originaria, laddove la nascita del bambino può corrispondere ad un progetto di nascita del sé, in una fantasia autarchica di auto-concepimento, che può mettere in scacco la possibilità per il bambino di un percorso di individuazione compiuto.
Il desiderio di bambino invece è quanto presiede alla possibilità di creare uno spazio dove il figlio che nasce possa divenire, possa esistere come individuo separato, in un progetto creativo ed evolutivo di coppia.
Il bisogno ed il desiderio in rapporto alla possibilità procreativa non vanno immaginati in netta contrapposizione, giacché ogni gravidanza può presentare entrambi questi vissuti in una maniera più o meno sfumata. È quanto emerge dal lavoro clinico con donne in gravidanza, di cui vengono fornite ampie resocontazioni nel testo “Lo spazio cavo e il corpo saturato. “La gravidanza come agire tra fusione e separazione” (Ferraro e Nunziante Cesàro, 1985).
Il caso di P. (si veda da pag. 102 del volume), è in tal senso esemplificativo di come la gravidanza possa rappresentare e dare origine a vissuti di benessere e pienezza, che si accompagnano a vissuti di perdita inconsolabile in rapporto alla nascita del bambino. Ciò che sembra essere messo in scena in maniera alquanto evidente, è la cesura che l’atto della nascita sembra segnare nel suo orizzonte psichico. Alla completezza e la beatitudine dello stato gravidico si accompagnano terrori di perdita e di “essere gettati nel mondo”.
In talune gravidanze sembra ripetersi l’esperienza della propria nascita, un’esperienza, questa, che non si può accompagnare ad una memoria, essendo forte il bisogno di una ripetizione, nel tentativo di sedare l’angoscia della separazione originaria. La gestazione sembra consentire una tregua ai vissuti angosciosi e può essere seguita da manovre psichiche intese ad assicurare una difesa dal vuoto. Ciò rimanda alla teorizzazione che Winnicott propone circa la “Paura del crollo” (Winnicott, 1974).
La paura del crollo può essere all’origine della creazione di un “vuoto controllato”, un troppo pieno che si reifica nel ventre pieno, che non consente un vissuto della nascita del bambino come un’esperienza creativa e di crescita.
La teorizzazione di Gaddini (1982) relativa al concetto di “fantasia nel corpo” esprime il lavoro imitativo messo in atto dal bambino per sostenere l’illusione della totalità simbiotica con la madre. Le fantasie nel corpo rispondono, in altre parole, ad una attività psicosensoriale infantile il cui prototipo è l’immagine allucinatoria, che sorregge la prima forma di identità del bambino, quale identità imitativa in un momento ancora caratterizzato dall’assenza di confini e di separazione.
Il concetto di fantasia nel corpo sembra ben esprimere il vissuto di certe gravidanze segnate dal bisogno di contrastare la minaccia di un crollo e la sensazione di vuoto. È il caso di S. descritto nel volume (si veda Ferraro e Nunziante Cesàro, 1985), in cui la fantasia di un ventre pieno (in assenza di un effettivo concepimento) ed il bambino al suo interno, sembrano invocati a contrastare la minaccia di scomparire in una caduta senza fine, o un dubbio di non essere mai esistita e segnalano il significato auto-protettivo della gravidanza.
La fantasia autarchica di gravidanza, spesso autoindotta, sembra affondare le sue radici in vissuti infantili di abbandono e disperazione. In questi casi, sembrano essere sollecitate immagini ipertrofiche di sé, che, tuttavia, pur esprimendo un sentimento onnipotente e trionfale, non riescono a sopperire il vissuto di impotenza e mancanza radicale che ne è all’origine.
In questi casi, come nel caso di E. riportato nel volume (si veda Ferraro e Nunziante Cesàro, 1985), una vera gravidanza, un reale concepimento sembra essere rischioso, avvertito, in altri termini, come un’esperienza che ripropone il senso di povertà, mancanza ed impotenza originari e può concludersi con un fallimento. Quando la gravidanza diviene effettivamente possibile, le angosce di perdita possono riemergere con tale intensità da influire sul corso della gestazione, su parti prematuri in un’età di confine tra la vita e la morte, che vede la sorte del bambino sospesa.
Il caso di F., una donna che ebbe tre gravidanze molto complesse (si veda Ferraro e Nunziante Cesàro, 1985), sembra ulteriormente esemplificare come quello che potrebbe definirsi come “il bisogno imperioso di essere incinta” sia preponderante ed insorto a colmare intense angosce di perdita e lacerazione, sicché non appena si esce dall’orbita magica della gravidanza ci si imbatte nella psicosi o nella morte. La seconda gravidanza, che si conclude con la morte del proprio figlio, sembra essere segnata dal bisogno di riattraversare esperienze traumatiche, in cui non appare immediata la distinzione se la gravidanza sia espressione di un impulso a sopravvivere o il bisogno di una ripetizione senza memoria, ignara dei rischi in cui si può incorrere.
Il bisogno di ripetizione sembra essere inscindibile dalle questioni del trauma, se, seguendo la Greenacre (1967) si tiene conto della presenza nella gravidanza di una spinta a ripetere che pare prendere il sopravvento.
In questo senso, il bisogno di ripetere rappresenta il tentativo di rimettere in moto un processo, misurandosi con i punti di fissazione e di impasses che lo hanno interrotto. Ma nella ripetizione è da cogliere anche l’aspetto di ricerca di un punto di maggiore sicurezza ed attrazione, sicché la gravidanza può sia contenere un aspetto di ritorno al passato nelle forme di un rassicurante percorso a ritroso, sia esprimere una forma dirompente in direzione della differenziazione e della crescita.
Si tratta propriamente di un doppio movimento di cui occorre tenere conto, anche se in alcuni casi la spinta a tornare indietro sembra porsi in contrapposizione con le esigenze della vita.
In questo contesto la ripetizione può assumere sia il significato di ripetere per padroneggiare attivamente, sia quello di ripetere coattivamente l’esperienza materna nel tentativo di auto fondarsi attraverso un’impresa essenzialmente imitativa.
Quest’ultimo aspetto spesso è difficilmente separabile da ogni gravidanza, ma laddove esso è prevalente, sembra indicare la presenza di un rischio antievolutivo, o, in altre parole, di un’esperienza che si può inscrivere solo nell’area dei bisogni. In questo senso, vi è la possibilità di un’adesione acritica al ruolo materno che esclude un’autentica differenziazione e può attestare la presenza di una pseudo-identità adulta che non tollera contraddizioni.
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