Qualsiasi lavoro riguardante la trattazione dell’architettura oggi non può più prescindere dal considerare la condizione dell’architetto e della sua ‘figura’. Dopo aver assistito, negli ultimi anni, a molteplici operazioni di ridefinizione delle sue competenze, appare attualissima l’affermazione che Vitruvio ci fornisce nel De Architectura, tra il 30 e il 20 a. C.: “Il sapere dell’architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti disciplinari e di conoscenze relative ai vari campi, e al suo giudizio vengono sottoposti i risultati prodotti dalle altre tecniche. L’attività legata a tale sapere risulta da una componente teorica e da una pratica. L’aspetto pratico consiste nell’esercizio continuato e consumato dell’esperienza, mediante il quale qualsiasi realizzazione si debba eseguire viene eseguita manualmente, plasmando la materia secondoun disegno prefissato, mentre la riflessione teorica è in grado di render conto e dare dimostrazione dei manufatti realizzati dall’abilità tecnica mediante il calcolo delle proporzioni. [...] Come in tutti i campi infatti così anche, più che altrove, in architettura si ritrovano questi due elementi ‘ciò che è significato’ e ‘ciò che significa’. ‘Ciò che è significato’ è l’oggetto in questione, mentre ciò che lo significa è una dimostrazione condotta secondo il metodo razionale della scienza.”
Per Sironi l’architettura non è una forma d’arte, ma la definizione stessa dell’arte. L’arte è sempre architettura, cioè forza costruttiva.
Nella sua opera si trovano fuse insieme le componenti rintracciabili nelle affermazioni di Vitruvio, dell’Alberti e del Vignola: il valore primo del lavoro dell’architetto insignito nel profondo della sua dignità professionale dall’essere depositario dei destini della città, dello spazio in cui si compie la vita degli uomini, e allo stesso tempo garante dell’obiettivo sociale che la sua arte deve raggiungere e catturare attraverso il difficile e impegnativo compito della trasmissione e della diffusione del sapere, al fine di incidere in maniera decisiva sulla coscienza culturale degli uomini.
“Oggi è tempo di fede. È necessario costruire.” Mario Sironi
Alla sua concezione della figura dell’architetto Sironi dedica un’intera serie delle sue opere, delle vere e proprie iconografie dell’arte di costruire, silenziose e vibranti nei loro messaggi quali l’Architetto, l’Allieva, la Solitudine, Busto d’uomo, i Costruttori.
La costruzione, intesa sia come mito sia come elevazione al fine ultimo, trova nei Costruttori del 1929 il momento di massima espressione figurativa, in cui forza plastica e massività cromatiche alludono alla profonda osmosi tra artefice e artefatto, tra uomo, terra e costruzione. I colori sono tutti riferibili ad un’unica fonte, le diversità tonali si riverberano nei riflessi obliqui che segnano i recessi e gli aggetti della compattezza delle quinte, che fanno apprezzare la rotondità della colonna e il busto in primo piano, significativo omaggio alle strategie prospettiche della Flagellazione di Piero della Francesca.
La limpidezza espositiva e la luminosità dell’opera di Sironi l’Architettura. Il lavoro in città, del 1931-32, risultano cancellate nell’Architettura del 1944, in cui si inizia a rendere tangibile la crisi interiore degli anni ‘50 e ‘60 che si manifesterà pienamente con la Città del 1954 e l’Apocalisse del 1961.
Nell’opera del 1944 nella quale non si pone in discussione il valore dell’architettura ma tutto ciò che si muove intorno ad essa, quale prodotto dei tempi, si riversa in un apparato confuso di elementi che caoticamente riverberano riferimenti ormai trascorsi. Le dimensioni stesse di ogni singola figura appaiono ingovernabili e, inspiegabilmente non “scalate” le une rispetto alle altre, riecheggiano malinconicamente qualità perdute. Una densa immobilità, ritagliata tra i simulacri di un’arte che non è più, appare sospesa tra un’icona premonitrice e un affastellamento di sagome umane che diventa un ammasso informe. Non più vigorosi busti o corpi in competizione con la materia ma addirittura corpi accasciati, piegati dalla disperazione.
E’ questa l’anticipazione più diretta del precipizio inevitabile della Città del 1954 che risucchia uomini e edifici, accomunati da un processo di decomposizione che riduce tutto a frammenti, a disiecta membra, a un ‘mosaico di schegge inerti’.
Nell’opera L’Apocalisse del 1961, si dissolve il carattere epico della città e il sentimento stoico del mito della costruzione viene drammaticamente travolto in un vortice dissolutorio.
Eppure la misura salvifica è quella imponente dell’architettura, dei poderosi blocchi micenei che schiacciano i filamenti umani, ma che allo stesso tempo cingono la grande cavità sulla cui oscurità si stagliano due candide e minuscole figure, alle quali tutta la scena rassegna il proprio destino.
Lo stesso destino che con rinnovato spirito morale mira alla possibilità della ricostruzione, della rinascita che segue alla rovina e che si affida alla purezza di figure diafane: è il paesaggio drammaticamente disteso dell’Arca incagliata di Giovanni Michelucci del 1988, nel quale la cavità cupa di Sironi trova uno sfondamento illuminato dall’azzurro del cielo.
“Quando è che l’architetto acquista coscienza della responsabilità che ha…. nello svolgere la propria professione? Quando è …che egli, ad ogni mattone o ad ogni pietra che muta, ha la certezza di avere fermato un pensiero sulla città nuova. Forse noi non sappiamo nulla del nostro futuro, di quello che saranno i nostri progetti, forse abbiamo perduto la qualità prima che l’architetto deve possedere e che è quella di seguire un pensiero rivolto alla città come rifugio, come luogo in cui l’uomo…”
Giovanni Michelucci
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